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Il Lambrusco e l’operazione “Bollicine”

Andrea Vaccari
Il Lambrusco e l’operazione “Bollicine”

Fondamentale l’abbinamento gastronomico per riuscire a conquistare il suo posto nel mondo

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Reggio Emilia È uno dei vini italiani più venduti nel mondo, e qui a Reggio Emilia occupa una fetta significativa di mercato, in grado di rappresentare non solo il passato ma soprattutto il presente e il futuro dell’agroalimentare. Il Lambrusco è stato al centro della tavola rotonda organizzata dalla Gazzetta di Reggio per approfondire lo stato di salute del vino più celebrato della nostra provincia: un appuntamento che ha radunato diversi esperti del settore grazie ai quali abbiamo tracciato un quadro esaustivo su un prodotto che non passa mai di moda.

Il prodotto

Il Lambrusco è un vino che ha dato tanto al territorio, anche in termini di indotto. Come ha spiegato Claudio Biondi, presidente del Consorzio di tutela del Lambrusco Doc, una realtà giovane ma con tradizione che unisce le esperienze di Reggio Emilia e Modena, capace di vendere sinora 800 milioni di bottiglie. «Migliaia di agricoltori, centinaia di aziende di trasformazione, un’ampia commercializzazione, lo sforzo per ampliare la gamma merceologica: c’è un grande coinvolgimento di tutta la filiera. Oltre il 93% dell’uva da lambrusco è prodotto in Italia, un vino dotato di grande eclettismo. Tante sono le varietà, tra cui il doc di Reggio che è intenso e carico di colore, dall’acidità non elevata. In questa fase storica i vini rossi corposi stanno soffrendo in tutta Italia, il Lambrusco da questo punto di vista ha caratteristiche che lo rendono più piacevole, anche grazie alla bassa gradazione alcolica. Tanto che non è più solo un vino da pasto ma si sta affermando anche come aperitivo».

La vendemmia

Proprio in questi giorni si sta entrando nel pieno della vendemmia. «Sinora – sottolinea Lorenzo Catellani, presidente di Cia Reggio Emilia – è stato raccolto il 25% delle uve. Si è iniziato in collina a Ferragosto con i bianchi, poi è stato il turno delle uve rosse, in particolare ancellotta. Si evidenzia una straordinaria qualità, a fronte di un calo della produzione del 15/20%, soprattutto a causa delle condizioni climatiche. I mesi di gennaio e febbraio non sono stati particolarmente freddi e le temperature hanno fatto risvegliare l’uva prima del dovuto. Poi in aprile è arrivata la gelata, che nel Reggiano ha provocato effetti anche sulle bianche. Poi un maggio particolarmente piovoso (250 millimetri di pioggia rispetto ai soliti 60/80, ndr) siamo arrivati alla fioritura con una pianta molto stressata». Il risultato di questo tempo “pazzo” è una penalizzazione in termini di quantità ma non a discapito della qualità: si otterranno vini particolarmente profumati, grazie alle escursioni termiche giorno/notte dell’ultimo periodo dell’annata agraria.

Flavescenza dorata

Oltre al clima, a penalizzare la produzione del Lambrusco c’è la piaga della flavescenza dorata, una malattia epidemica che non lascia scampo al vigneto, ormai diffusa in quasi tutte le regioni. In caso di contagio – dovuto ad un insetto chiamato scaphoideus titanus che fa da vettore – tutte le piante malate devono essere necessariamente estirpate quanto prima per garantire la sopravvivenza del vigneto e per evitare la diffusione del contagio nelle zone circostanti. «Una malattia che conoscevamo da anni – specifica Davide Setti, vicepresidente della Cantina di Masone-Campogalliano – ma che si è espansa negli ultimi anni a causa della mancanza di prodotti in grado di contrastarla. Alcuni di questi, infatti, sono stati messi fuori legge, l’Europa impone una svolta green e l’unica arma che ci rimane è quella di operare con tempestività. Questo è un problema che fa perdere produttività ai nostri vitigni: in un’annata complicata come questa, la flavescenza causa ulteriore preoccupazione».

Le vendite

«Incassiamo soldi con la consapevolezza che perdiamo soldi – aggiunge ancora Setti – in quanto, ad oggi, i costi si aggirano intorno ai 28-32 euro. Anche a causa dell’aumento dei tassi, le risposte che hanno i nostri soci sono di poco guadagno. Sono convinto che il Lambrusco tornerà a essere qualcosa di importante ma ad oggi c’è da fare i conti con un calo nazionale del consumo del vino di oltre il 5%». C’è anche un aspetto che riguarda il tema della contraffazione: «Abbiamo registrato il Lambrusco in 23 Paesi – spiega Biondi, presidente del Consorzio di Tutela – ma ogni tanto arrivano segnalazioni di falsi. Il paese principe, in questo, è la Russia: sono quattro anni che cerchiamo di registrare il marchio ma non ce lo concedono. In generale, credo che quella del lambrusco non sia una crisi strutturale: i 220mila quintali di uva in meno sono da imputare alle malattie e all’aumento dei costi dettato dalla guerra e anche dalla pandemia. A mio avviso dobbiamo cercare di intercettare nuovi consumatori: il pubblico femminile è quello che detta le tendenze».

Lambrusco e tradizione

La produzione di Lambrusco ha consentito alla nostra provincia di passare da agricola ad industriale ed ha rappresentato un’ottima occasione di crescita. «Già nel 1930 – spiega Aldino Antonio Fornaciari Medanich dell’azienda Enocianina Fornaciari – nella nostra provincia venivano raccolti 2,5 milioni di quintali di uva, del quale il 75% cresceva su alberature su olmi. Un’attività che ha consentito di passare dal 1910 al 1930 dall’essere contadini ad essere imprenditori. Oggi si dà molta importanza ai numeri, certamente importanti ma che non sono tutto, perché si rischia di dare troppe cose per scontate. Il Lambrusco negli anni è stato sottovalutato perché è mancata un’adeguata promozione del prodotto. Può essere vino da aperitivo tanto quanto il prosecco: occorre una spinta pubblicitaria che includa anche la storicità del prodotto». «Abbiamo sul nostro territorio – conferma Biondi – cantine che hanno festeggiato 120 anni di attività. Le più grosse cantine sociali del territorio italiano sono nate qui all’inizio del ’900».

Lambrusco e futuro

Cosa fare per rilanciare il Lambrusco nel prossimo futuro? Su questo aspetto l’opinione dei nostri ospiti è stata unanime. Fondamentale, in questo senso, è l’abbinamento con il territorio della Food Valley e i suoi prodotti enogastronomici conosciuti in tutto il mondo, ma non solo. La vera sfida è rappresentata dall’internazionalizzazione del marchio: il Lambrusco non deve essere più visto solo in accompagnamento alle nostre tipicità (erbazzone e gnocco fritto, tanto per citarne alcune) ma occorre il coraggio di proporlo anche in contesti lontani dalla zona di produzione. «In passato – afferma Mauro Rondanini, direttore del Conad Le Querce – si è prodotto e commercializzato anche Lambrusco non buono, ma oggi ogni cantina ha il suo Lambrusco “premium”. Nella nostra enoteca noi abbiamo oltre cento etichette di Lambrusco: non li facciamo solo assaggiare, ma li facciamo degustare, li raccontiamo, e facendolo raccontiamo anche la nostra terra e la nostra storia». Forse il Lambrusco ha pagato anche lo “scotto” di avere tante sfumature – «Ci sono Lambruschi che sono davvero diversi tra loro, quasi irriconoscibili, e soprattutto all’estero questo può creare confusione», riflette Luca Pivetti dell’Enologica Srl – ma questa sua ecletticità rispecchia le peculiarità del territorio in cui, da sempre, il Lambrusco viene prodotto. l

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