Martina Mazzotta a Reggio Emilia: «Un Kandinsky così non lo avete mai visto»
La curatrice racconta in anteprima la grande mostra "Kandinsky-Cage: musica e spirituale nell'arte" di Palazzo Magnani: «Un percorso inedito tra arte, musica e spiritualità». L'esposizione sarà inaugurata l'11 novembre e sarà visitabile fino al 25 febbraio.
REGGIO EMILIA. Non aspettatevi un’antologica su Wassily Kandinsky. E nemmeno una conferma di ciò che già sapete o avete ammirato altrove. «Quello che troverete a Palazzo Magnani è qualcosa che non avete mai visto prima».
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La promessa è di Martina Mazzotta, curatrice della mostra “Kandinsky-Cage. Musica e spirituale nell’arte” che verrà inaugurata a Palazzo Magnani l’11 novembre.
Perché allestire un’esposizione che unisca arte, musica e spiritualità?
«L’occasione è succulenta: vent’anni di Palazzo Magnani e la possibilità di celebrare finalmente il grande filantropo e collezionista Luigi Magnani anche in qualità di grande musicologo. Magnani ha scritto opere fondamentali come “La musica di Proust” o “Goethe, Beethoven e il demonico”, ed è stato amico di grandi artisti del Novecento che come tutti i grandi non hanno potuto esimersi dal dialogare con la musica in maniera profonda. Così abbiamo deciso di legare la triade arte, musica e spiritualità celebrando Kandinsky, che nel suo libro “Lo spirituale nell’arte” condensa una serie di istanze fondamentali per capire come certa arte astratta si sia sviluppata in parallelo alla distruzione delle tonalità musicali».
Le parole della curatrice Martina Mazzotta
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E così ecco spiegato l’altro grande protagonista della mostra, John Cage, il cui nome compare anche nel titolo. Da una parte avremo l’astrazione concettuale di Kandinsky, dall’altra la musica di Cage, quindi?
«La mostra omaggia la tradizione goethiana, molto cara anche a Magnani, che secoli addietro insegnava come coniugare le scienze dello spirito con le scienze della natura. Un atteggiamento multidisciplinare che il Rinascimento italiano ha conosciuto bene ma che poi è stato abbandonato. Una via feconda per comprendere Kandinsky e l’astrazione nelle arti è proprio l’indagine dell’arte senza oggetto per eccellenza, la musica».
Affrontare la musica dodecafonica, tuttavia, non è da tutti…
«È vero, l’arte astratta ci è molto familiare, mentre la musica dodecafonica può risultare ostica se non si ha una preparazione adeguata all’ascolto. Ma questi temi di psico-acustica, che vedono l’occhio funzionare in maniera differente rispetto all’orecchio, sono molto interessanti. Il visitatore di questa mostra è chiamato in causa in maniera diretta abbinando, attraverso campane sonore, ovvero cilindri acustici disposti nelle sale, visione e ascolto. Sarà chiamato in causa anche mettendo in gioco la tattilità: alcune opere sono state riprodotte per i non vedenti, ma in fondo per tutti, in collaborazione con l’Istituto nazionale per i ciechi. L’ambizione è che la mostra sia fruibile da tutti, che sia divertente per i bambini ma che sia di ispirazione anche per i più esigenti, reticenti, analitici conoscitori di certi aspetti della storia dell’arte. Che però qui viene letta in maniera inusuale: di mostre, mostrine, mostracce di Kandinsky ne abbiamo viste anche troppe, una lettura del genere è una via nuova».
Non è mai stato realizzato qualcosa di simile neanche fuori dall’Italia?
«Su spirituale, arte e musica no. Questa mostra può diventare un modello. Purtroppo siamo in Italia, quindi non so se sarà così. Ma sicuramente è un esperimento».
È stato difficile organizzarla? Le opere vengono da diverse parti del mondo…
«Difficile perché per Kandinsky, ma anche altri degli artisti presenti, la richiesta è tale che i musei non prestano. E poi in molti non conoscono le città italiane meno frequentate. A persuaderli è stata la natura del luogo, la storia di Magnani, la tipologia di progetto; anche l’identità del proponente ha contribuito ad avere prestiti prestigiosi. I musei prestano quando quello che sopravvive alla mostra, cioè il catalogo, diventa un documento di arricchimento, uno strumento critico. Però è chiaro che una monografica su Kandinsky e la musica avrebbe richiesto molti più anni e mezzi, forse non sarebbe nemmeno stata possibile».
Quanto tempo ci è voluto per arrivare a questo risultato?
«Due anni di lavoro, abbondanti. Ci sono stati incidenti di percorso, come accade in qualunque progetto, ma se c’è una linea e soprattutto una capacità di collaborare come squadra le cose poi funzionano».
I privati hanno collaborato?
«Sì, italiani e svizzeri hanno fornito opere bellissime soprattutto di Kandinsky, Fausto Melotti e Cage».
Sapevate a chi chiedere o qualcuno si è fatto avanti da solo?
«Ci sono state anche delle scoperte casuali, ma nella maggior parte dei casi sapevamo dove erano le opere che ci interessavano. Ma ci sono state sorprese molto piacevoli. Abbiamo scoperto, ad esempio, che Turcato, che omaggia Kandinsky con “Moduli in viola”, assiste a uno spettacolo di John Cage negli anni Settanta a Roma e rimane folgorato dai colpi di scena, come quando Cage sul palco inizia a urlare in giapponese “Questo giorno è un giorno bellissimo”. E così abbiamo costruito il ponte Kandinsky-Cage-Turcato. Ma questo è solo un micro esempio. Schönberg – amico, sostenitore e poi nemico di Kandinsky – è l’insegnante più importante che Cage abbia mai avuto. Oskar Fischinger lavora su Kandinsky ma è uno dei maestri di Cage. Marianne Werefkin conosce in Lituania Constantin Ciurlionis prima di diventare amica di Kandinsky e Klee, sostenendoli. L’unico fuori dal coro è Nicolas De Staël, che ha una declinazione musicale e spirituale diversa dagli altri: ma era amato da Magnani, e quindi un piccolo omaggio lo si fa a lui. Tutti gli altri intrecciano le proprie vite, con le proprie ricerche, con le proprie opere».
Era già a conoscenza di questo incastro?
«I grandi scienziati del passato dicevano che c’è una sorta di alchimia nella ricerca, e io credo che questa costellazione si sia assestata anche così, un po’ per magia, nonostante i momenti di sconforto e gli inciampi del percorso. Un grande curatore che ricordo, Harald Szeemann, curatore delle Biennali più belle sulla fine degli anni Novanta e riscopritore del Monte Verità, diceva che le mostre o diventano un’ossessione o non sono tali, perché non comunichi poi agli altri questa forza e questa coerenza».
Quante opere sono presenti in mostra?
«Circa 150 tra grafie musicali, spartiti, dipinti che illustrano come la musica viene ascoltata o eseguita. E poi ci sono opere di pittura, disegno, scultura o cinema che mutuano dalla musica certi linguaggi e viceversa li passano alla musica».
Quanto è costata?
«Non tanto perché abbiamo privilegiato opere su carta. Ci sono tantissimi dipinti, ma con una certa opera di Kandinsky avremmo rischiato di bruciarci metà budget. Abbiamo speso abbastanza per i trasporti, perché ci sono opere che arrivano davvero da lontano».
Non ha paura che qualcuno lamenti l’assenza di quadri fondamentali?
«Assolutamente no. Questa non è una mostra d’affitto, non è una di quelle esposizioni che vengono organizzate sfogliando il catalogo Christie’s e affittando opere molto care messe poi in sequenza senza rischiare nulla. A Palazzo Magnani vedrete opere importanti ma scelte con criteri altri. Questa non è la grande monografica di Kandinsky, è un percorso tra musica, arte e spiritualità in relazione al contesto. Qui di Kandinsky si vedranno cose che non si vedrebbero mai altrove».
Chi non ha competenze musicali si deve spaventare?
«La musica arriva direttamente ed è meno spaventosa di qualunque altra cosa. E comunque ci saranno pannelli esplicativi e ottime audioguide. Anche Kandinsky potrebbe spaventare – io stessa ho paura di certe sue esplosioni di molecole – ma qui viene rappresentato in pillole dagli esordi (quando è un pittore russo che dipinge chi ascolta musica) alla morte. Insomma se ci si spaventa con questa mostra ci si spaventerebbe comunque».
Pensa che questo percorso sarà capito? Cosa si aspetta?
«Io spero che questa mostra crei dibattito e generi critiche, perché in Italia nessuno critica niente e tutto va sempre bene. Spero che faccia parlare le persone, faccia divertire, nel senso di divergere dalla norma, e che ispiri, cioè che porti dentro il visitatore il respiro e lo spirito. Che imponga a tutti di divenire creativi».
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