«Da Parigi al Punjab: così l’Arma ha lottato per Saman. Volevamo trovare la verità per lei»
Il maggiore Maurizio Pallante guida il Nucleo Investigativo dei carabinieri di Reggio Emilia: ha seguito il caso fin dalle prime battute. Dopo la sentenza di secondo grado, racconta quanto il caso lo abbia segnato
Novellara A pochi giorni dalla sentenza di secondo grado, che ha condannato all’ergastolo i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, e i due cugini, Noman Ul Haq e Ikram Ijaz, e a 22 anni lo zio Danish Hasnain, abbiamo ripercorso gli ultimi quattro anni di questo caso con il maggiore Maurizio Pallante, che guida il Nucleo Investigativo del Comando provinciale dei carabinieri dal 2020.
Comandante Pallante, che sfide ha presentato questo difficile caso per i carabinieri?
«È stato uno dei casi più complessi che abbiamo affrontato. Sin dall’inizio ci siamo trovati davanti a una situazione inedita: non c’era una vera scena del crimine, solo l’assenza della ragazza. Nessun corpo, nessuna prova evidente. A questo si aggiungeva la difficoltà di indagare in un contesto culturale diverso, con una famiglia pakistana senza legami sul territorio».
Quando avete capito che potevano averla uccisa?
«Una decina di giorni dopo la scomparsa. Avevo da poco seguito un corso sulla criminalità etnica e sul tema del delitto d’onore. Quando mi parlarono di una ragazza pakistana scomparsa dopo essersi rifiutata di sposarsi, ho capito subito la direzione. Lo scrissi nella prima informativa: le caratteristiche portavano a un delitto d’onore».
Quali sono state le difficoltà principali?
«Tantissime. Riconoscere il tipo di reato, identificare i responsabili, seguire piste internazionali. Abbiamo dovuto collaborare con autorità in Francia, Spagna e Pakistan. Tutto in un contesto dove i soggetti si muovevano in ambienti chiusi, difficili da penetrare, e con nomi diversi da quelli noti in Italia».
Parliamo della cattura dei latitanti. Lei si è recato a Parigi e in Pakistan.
«È stato un lavoro enorme. Prima è stato preso il cugino Ikram, poi lo zio Danish è stato arrestato dopo mesi di osservazione a Parigi. Un altro cugino, Noman Ul Haq, è stato individuato in Spagna: abbiamo controllato le utenze dei coinquilini dello zio a Parigi. Abbiamo così scoperto che Danish aveva telefonato in Spagna, usando un cellulare di un connazionale, a un’utenza registrata a Noman Ul Haq. L’operazione in Pakistan per riportare il padre, e poi la madre, è stata senza precedenti: un’estradizione di cortesia, possibile grazie alla collaborazione tra Ministero, forze dell’ordine, diplomazia e procura. Va ricordato l’impegno del procuratore Calogero Gaetano Paci».
Le ricerche del corpo sono state estenuanti e alla fine solo lo zio ha permesso la svolta. Come mai?
«Sono durate 67 giorni, con 500 carabinieri, vigili del fuoco, unità cinofile anche tedesche e svizzere. Abbiamo scandagliato 80 ettari. Nulla è stato trascurato: droni, archeologi forensi, analisi satellitari. Alla fine, il corpo è stato ritrovato, 566 giorni dopo l’omicidio, dove eravamo andati all’inizio, in un casolare che all’epoca sembrava privo di indizi. La fossa era profonda, e a questo va aggiunto il terreno argilloso, che ha impedito ai cani di percepire qualsiasi cosa».
Ci sono stati errori nella gestione del caso?
«Quando si lavora in emergenza è facile, a distanza di tempo, vedere cosa si poteva fare meglio. Forse si sarebbe potuto agire più in fretta nel proteggerla, quando tornò a casa il 20 aprile 2021. Ma Saman era maggiorenne, ed era tornata a casa spontaneamente. L’allarme c’era, ma mancavano gli strumenti giuridici per impedirle di rientrare in famiglia. Non era semplice prevedere un epilogo così tragico».
Cosa ha insegnato questo caso?
«Che serve conoscere meglio certi contesti culturali. Oggi, dopo questo caso, siamo più pronti. Le ragazze che denunciano vengono subito allontanate. Anche lei fu allontanata rapidamente, quando a novembre 2020 denunciò. Ma poi è tornata, ed è lì che si è consumato il dramma. È stato un caso che ci ha toccato profondamente, anche sul piano umano. Era una ragazza giovanissima, tradita da chi avrebbe dovuto proteggerla. Molti miei colleghi hanno figlie della stessa età. L’abbiamo vissuta come una vicenda personale».
Il fratello di Saman ha avuto un ruolo decisivo.
«Assolutamente. È stato l’unico della famiglia a dire la verità, fin dall’inizio. Aveva solo 16 anni, ma ha avuto il coraggio di parlare. Non va giudicato per alcune esitazioni: è cresciuto in un contesto molto rigido».
La sentenza d’appello ha confermato l’impianto investigativo.
«Sì, conferma che la ricostruzione fatta da carabinieri e procura era corretta».
Cosa resta di questo caso?
«Resta una ferita. Ma anche la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile. L’abbiamo vissuta in modo personale, ci ha segnati. Volevamo trovare la verità per lei. La chiamavamo tutti per nome, come se la conoscessimo». l © RIPRODUZIONE RISERVATA