Gazzetta di Reggio

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L’intervista

Il fotografo dell’Appennino James Bragazzi: «I miei click testimoni di emozioni»

Emma Zanetti*
Il fotografo dell’Appennino James Bragazzi: «I miei click testimoni di emozioni»

«A volte il critico riesce vedere nelle mie fotografie cose che sono nel mio intimo, come è stato capace di fare il professore Massimo Mussini, che, partendo dalle foto, è riuscito ad arrivare alla mia persona»

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Il fotografo James Bragazzi, originario di Casina, in questa intervista ci racconta l’Appennino secondo la sua visione unica e particolare.

Da esperto conoscitore dei tanti luoghi dell’Appennino Reggiano, può dirci se è stato quest'ultimo a ispirare la sua passione per l’arte fotografica o se è stata tale arte ad averlo spinto ancora di più ad amare i suoi luoghi nativi?

«A 17 anni ho fatto il mio primo servizio matrimoniale. I primi 20 anni di attività sono stati rivolti a lavori da fotografo di paese come matrimoni, cresime, comunioni. A distanza di qualche anno da quando ho iniziato a fare le foto, mi sono avvicinato alla montagna e all’alpinismo, a cui mi sono dedicato per 35 anni. Così sono arrivato a conoscere luoghi che non sono visibili a tutti. Prendevo con me sempre una macchina fotografica e, secondo me, le mie foto avevano un qualcosa di più rispetto a quelle degli altri miei compagni che fotografavano perché loro le facevano senza arte. Il paesaggio, piano piano, è entrato così nel mio modo di fotografare la montagna. A volte il critico riesce vedere nelle mie fotografie cose che sono nel mio intimo, come è stato capace di fare il professore Massimo Mussini, che, partendo dalle foto, è riuscito ad arrivare alla mia persona. È la stessa cosa che avviene con la lettura di un paesaggio: chi lo sa leggere ti sa dire tante cose di quel luogo. Riassumendo, la mia grande passione per la montagna, che continua da cinquant’anni, ha fatto sì che nelle mie fotografie ci sia dentro anche l’amore: qualcosa che traspare e si mostra a chi sa guardarlo».

Recentemente, lei ha donato mille diapositive dell’Appennino Reggiano alla fototeca della biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Qual è l’intima motivazione che l’ha spinta a questo gesto?

«Diciamo che ho voluto lasciare qualcosa del mio lavoro alla città. Così come ho fatto raccogliendo le mie fotografie di paesaggio in un volume che all’inizio non pensavo neanche fosse possibile, nel senso che, vedendo i libri fotografici dei “mostri sacri” della fotografia a livello mondiale, mi dicevo “ma come faccio io a farne uno?”. Poi, dopo l’insistenza di tanti amici, nel 2000 mi sono deciso e ho pensato ad un libro sull’Appennino, da Casina al Crinale. Nel 2001 ho pubblicato “Appennino infinito” e il successo che avuto mi ha dato la forza di farne tanti altri. Nel “cassetto” avrei già pronti almeno altri tre o quattro libri ma adesso anche solo pensare di pubblicarli sarebbe da masochista: hanno un costo molto alto dovuto alla qualità che ha la carta oltre che a quanto richiede la sua costruzione artistica. Quindi solo con la vendita nelle librerie non si riuscirebbero a coprire le spese. Insomma, sono bloccato per adesso. Ora mi dedico a mostre e ad altre cose».

Le è mai sorto il dubbio che documentare fotograficamente luoghi poco conosciuti, come quelli dell'Appennino Reggiano, potesse interessare poco al grande pubblico, ormai condannato ad un’omologazione anche della cultura?

«La forza per arrivare a fare il primo libro mi è arrivata dagli amici, come ho già raccontato, e da un collega, anche se sinceramente da parte mia definirlo così è quasi offensivo per lui perché ha fatto una carriera pazzesca. L’avevo conosciuto per caso. Una sera io e altri eravamo in Australia e cercavamo un ristorante, così mi sono imbattuto in questo locale in cui erano esposte fotografie fatte con la mia stessa macchina: praticamente mi era sembrato di vedere le mie foto. L’autore, questo fotografo, operava in tutta l’Australia, un posto che ha tutto: dalle coste meravigliose al deserto, dalla foresta pluviale alla barriera corallina fino ad animali a non finire. Quindi mi dico “lui opera nel suo continente, immortalando il suo ambiente, io invece a Casina quindi potrei cercare di far vedere alla gente i bei luoghi che abbiamo noi. A Castelnovo Monti c’è gente che non è mai andato sulla Pietra di Bismantova e a Ligonchio persone che non sono mai stati a Presa Alta, a meno che non vadano a funghi. C’è anche chi vive in Appennino e non è mai stato sul Cusna. Io sono mosso dalla voglia di fare vedere delle immagini che possano suscitare nelle persone che le guardano le stesse emozioni che ho provato io vedendo quegli stessi luoghi dal vivo e fotografandoli. Quindi è stato anche per questo che nel 1991 ho comprato una macchina fotografica e ho cominciato ad operare nel mio piccolo, con la mia conoscenza dell'Appennino: ci camminavo, ci andavo con gli sci d’inverno, qualche volta anche a funghi, mi imbattevo in luoghi che altri non vedevano e andavo a fotografarli con la miglior luce possibile nelle diverse stagioni dell’anno. In questo modo sono riuscito a mettere insieme una cinquantina di foto per fare il primo libro. Dopo gli altri sono venuti un po’ tutti di conseguenza, non facendo altro che migliorare, fino ad arrivare all’ultimo libro veramente molto impegnativo e corposo che è stato quello su una statale sessantatré».

Immaginando che tra chi legga questo articolo possano esservi dei cultori con la passione per la fotografia, quale consiglio si sente di dare loro per coniugare attraverso questo linguaggio il valore delle bellezze paesaggistiche ma anche culturali dell’Appennino Reggiano?

«In questi anni ho tenuto diversi corsi di fotografia e a tanti di quelli che li hanno seguiti, che io vedevo che erano già bravi, dicevo “cosa sei venuto a fare?”. E loro mi rispondevano che si erano iscritti perché io avevo una marcia in più rispetto ad altri fotografi. Quindi posso dire che se uno vuol fare qualcosa lo deve fare con passione: chi decide di fare questo mestiere tanto per fare o perché qualcun altro lo ha spinto o ancora pensando di sbarcare il lunario o qualsiasi altra cosa, non può pensare di riuscire a fare qualcosa che possa lasciare il segno. Magari farebbe anche delle fotografie corrette dal punto di vista tecnico e con una decente inquadratura e tutto quanto ma se gli manca un po’ di pathos, se da quegli scatti non trasuda l’amore, un secondo dopo succede che vengono dimenticate. Poi non dico che tutte le mie foto facciano trasparire questo, a volte anche nei miei libri sono rappresentati luoghi in cui sono andato solo due, tre, massimo quattro volte senza riuscire a fare le fotografie che volevo. Quindi il consiglio che posso dare è questo: se uno deve fare una cosa, in questo caso la fotografia, la deve fare perché veramente gli piace tanto, per dare il massimo. Adesso poi, purtroppo, siamo arrivati ad usare il telefono per fotografare: piano piano, man mano che i telefoni sono migliorati, anche io ho cominciato a portarmi dietro il cellulare, e non più la macchina fotografica, in escursioni impegnative. Oggi ci sono dei professionisti che fanno delle mostre in cui espongono le foto fatte con il telefono, loro però lo usano in una maniera veramente scientifica e riescono a portare a casa un buon prodotto».

Si è mai interfacciato in qualche modo con le istituzioni scolastiche provinciali? Ci sono state sue mostre aperte alle scuole e alla curiosità degli studenti?

«In diverse occasioni ci sono state delle mostre che ho fatto dove sono andate alcune scolaresche e questo perché magari c’era un insegnante particolarmente interessato che quindi ci ha portato una classe. Ma non sono state esposizioni fatte appositamente per gli studenti. Guardando al futuro, in questo momento so già che farò una mostra ad Albinea per l’anno che verrà, sotto le feste di Natale perché mi piace di più come periodo: c’è poco altro da fare di solito, considerando che il brutto tempo e il freddo spesso impediscono di andare in giro, allora faccio questo “sacrificio”: perché per me è un sacrificio stare magari tre, quattro o, a volte, cinque weekend ad accompagnare le persone alla scoperta della mia mostra. Diciamo, però, che ho un ritorno anche dal punto di vista personale: mi basta vedere degli amici che magari non vedo da tanti anni, persone che si fermano a parlarmi e mi fanno delle domande, proprio come stai facendo tu oggi. Se tu fai una mostra e non ci vai, lasciandola gestire da altri, sinceramente direi che è quasi che è tempo perso. Lo dico perché nella mia carriera mi è capitato anche questo».

Com’è cambiata la fotografia dai suoi inizi artistici ad oggi ?

«La fotografia in generale ha fatto un cambio epocale. Io sono partito a scattare le foto nel 1968, avevo 16 anni e sviluppavo subito le foto in bianco e nero in casa mia. Poi diciamo che un fotografo per emergere adesso deve avere veramente tante qualità, che 50 anni fa non servivano perché le persone che sapevano fotografare veramente erano veramente poche».l

*Studentessa dell’indirizzo turistico dell’istituto Mandela di Castelnovo Monti