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Il rapporto Istat

Mettiamoci il cuore in pace: fino a al 1° giugno tutto il reddito va in tasse

Mettiamoci il cuore in pace: fino a al 1° giugno tutto il reddito va in tasse

La pressione fiscale cresce anche nel terzo trimestre 2024. L’esperto: «Prezzi più alti e più occupati fanno alzare le imposte. Ecco perchè»

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Il “metro” non è proprio quello usato dai fiscalisti, ma per le persone comuni rende bene l’idea e fa anche un po’ drizzare i capelli: prendete un calendario e cerchiate in rosso la data del 1° giugno. Ecco, fino a quel giorno lì, quello che si guadagna se ne va in tasse. Dal giorno dopo si può cominciare a ragionare. L’Istat ha divulgato il “Conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”, relativo al terzo trimestre del 2024 (luglio, agosto, settembre) da cui emerge che la pressione fiscale – il rapporto tra contributi versati e Pil – è stata pari al 40,5%, in aumento di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando era al 39,7%. Per avere il quadro completo del 2024 occorrerà aspettare il 4 aprile 2025, quando l’Istat divulgherà i dati dell’ultimo trimestre, che storicamente è quello in cui la pressione fiscale è più alta ancora (nel 2023 è stata del 49,2%, l’anno prima del 48,2%). Ma qualunque dato uscirà fuori, una cosa è certa: in quel momento i contribuenti staranno ancora lavorando per pagare le tasse.

«La tendenza all’aumento si è verificata in tutti i trimestri rispetto al 2023, e il terzo trimestre va a confermarla», fa osservare Marco Cuchel, presidente dell’Associazione Nazionale Commercialisti. Alla notizia, dall’opposizione qualcuno ha parlato di «bugie del governo» rispetto all’aumento delle tasse. Va però precisato che l’aumento della pressione fiscale non è stato provocato da un aumento della pressione nominale delle tasse ma, per così dire, da un effetto collaterale. «Dal rapporto dell’Istat – spiega Cuchel – si vede che è aumentato il reddito imponibile delle famiglie dello 0,6% e che sono cresciuti i consumi delle famiglie dell’1,6%. Se aumenta il reddito, ci paghi più tasse; se compri di più, paghi più Iva». Risultato: sia la tassazione diretta che quella indiretta aumentano. Ma, di nuovo, servono un paio di precisazioni. Primo: aumento del reddito non significa che gli stipendi sono aumentati. «È solo che è diminuito il numero degli inattivi, quindi più persone lavorano, più aumenta il reddito familiare», anche perché il Pil è rimasto stabile. Secondo: comprare di più non significa essere più ricchi. Anzi. «In realtà è più corretto dire che si spende di più, non perché si comprino più beni, ma perché è aumentata l’inflazione, i prezzi sono aumentati. Carburanti, bollette, generi alimentari: costano di più, è aumentato il costo della vita, e dunque si versa più Iva». E almeno su questo punto non pare che le cose si mettano meglio nell’anno appena iniziato: «Nel 2025 è previsto un nuovo aumento consistente di energia elettrica e gas», ricorda Cuchel. Altro indicatore che non dice nulla di buono per il portafoglio dei contribuenti è quello relativo alla propensione al risparmio, calata di 0,8 punti percentuali e a quota 9,2%. Cosa significa? «Che si fa più difficoltà a mettere da parte qualcosa. Il reddito prodotto serve per tirare avanti nel quotidiano, e questa è la cosa più preoccupante», dice Cuchel. C’è poi un altro fattore che incide: i tributi locali. Ad oggi non si hanno i dati a livello regionale, che pure cambiano molto le sorti di un toscano rispetto a un campano, di un lombardo rispetto a un siciliano e così via. C’è però il dato della diminuzione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni. Dei soldi, cioè, che dalla fiscalità generale vengono rimandati sui territori per pagare servizi come a sanità, i trasporti, l’istruzione. «I trasferimenti sono in diminuzione ultimamente – spiega ancora Cuchel –. Gli enti locali, da parte loro, hanno la facoltà di aumentare Imu, Tari e altre imposte.  Quindi succede che magari a livello centrale resta la stessa pressione fiscale, ma a livello locale le tasse aumentano». Nella documentazione dell’Istat allegata al rapporto lo si evince da quelle che, accanto a imposte dirette, indirette e contributi sociali, vengono definite “altre entrate correnti”. Nel terzo trimestre 2024 sono state pari a 22,533 miliardi di euro; nello stesso periodo del 2023 erano state 20,516 miliardi. La beffa è che le tasse non vengono calcolate a caso, ma sono calibrate sui servizi che devono coprire. Se i cittadini pagano più tasse perché servono più soldi per i servizi, è un conto. Ma se pagano più tasse perché sono rincarati i costi e aumentati i redditi, c’è qualcosa che non torna. «A mio modo di vedere, considerato che aumentano i consumi e redditi, le tasse dovrebbero semmai diminuire perché, altrimenti, significa che si versano soldi in più. A meno che non aumentino i servizi». E ciascuno, qui, valuti per la propria esperienza. Di certo c’è che con una pressione fiscale del 40,5%, buona parte del lavoro di un anno se ne va a pagare le tasse. «Difficile fare questo calcolo, perché nell’anno si paga il saldo dell’anno precedente e l’acconto, ma diciamo che nei primi cinque mesi, fino a tutto maggio, sì, si lavora per lo Stato», conclude Cuchel. l © RIPRODUZIONE RISERVATA