L’ultima intervista al trombettista Vanni Catellani: «Quella volta con Armostrong a Sanremo»
Il racconto della partecipazione dell’artista americano: «Non sapeva di essere in gara»
Questa l’ultima intervista a Vanni Catellani pubblicata sulla Gazzetta di Reggio il 10 febbraio 2018. Il trombettista è morto a 93 anni in questi giorni.
«Mi arriva una telefonata che mi dice che devo presentarmi un certo giorno all’hotel Cavalieri Hilton di Milano. Ci vado, ed è lì che vedo per la prima volta Louis Armstrong». Vanni Catellani in questi giorni si gode dal televisore quel Festival di Sanremo che cinquant’anni fa lo vide protagonista in una delle performance che hanno fatto la storia dello spettacolo italiano: l’esibizione di Armstrong, il più grande jazzista di sempre, in concorso in quell’edizione a cui parteciparono 18 stelle della canzone italiana e altrettante star internazionali. Vinsero Sergio Endrigo e Roberto Carlos con “Canzone per te” ma il Sanremo del 1968 lo si ricorda per Armstrong. Vanni Catellani con la sua tromba faceva parte della jazz band organizzata per accompagnare Satchmo nella sua esibizione; un gruppo di artisti nel quale Reggio Emilia faceva la parte del leone, perché comprendeva anche Henghel Gualdi al clarinetto, il fratello Giancarlo alla tastiera elettrica e Sergio Catellani, fratello di Vanni, alla batteria. A completare il gruppo il trombonista Gianni Caranti, Bruno De Filippi al banjo e il contrabbassista bolognese Pierfederici.
Sul palco del Casinò anche uno dei musicisti di fiducia di Armstrong, il pianista Marty Napoleon. «L’allestimento della band era dell’impresario Pier Quinto Carriaggi – racconta Vanni Catellani – era stato proprio lui a chiamare Armstrong dall’America, e con lui il grande vibrafonista Lionel Hampton che con il suo strumento doveva fare una sintesi delle canzoni in gara durante le pause fra le esecuzioni. Non fu un caso che in coppia con Armstrong dovesse cantare Lara Saint Paul, la moglie di Carriaggi. Il manager voleva che la sua donna si mettesse in mostra». La prima persona con cui Armstrong parlò appena messo piede in Italia fu probabilmente proprio Catellani, grazie al fatto che il trombettista reggiano parlava inglese. «In quell’epoca non erano tanti gli italiani che conoscevano le lingue. Io avevo suonato fra i militari della Nato e quindi l’inglese lo parlavo. Quando al Cavalieri mi passa vicino gli dico qualche parola e lui si volta rispondendomi contento, così tutte le volte che ha bisogno di farsi capire viene da me». Qualche giorno dopo, il trasferimento a Sanremo, in vista dell’esibizione del 2 febbraio, un venerdì. «Ci sentiamo al telefono, io e Henghel, per metterci d’accordo, se andare in treno o in macchina. Alla fine arriviamo là ciascuno per conto proprio. Ci mettiamo a provare e mi danno una scaletta che comprende una sigla di ingresso e cinque brani. Capisco che c’è qualcosa che non va. Com’è possibile che un artista in gara esegua cinque brani?». In effetti l’esibizione di Armstrong è passata alla storia anche per un equivoco. Gli organizzatori del festival convinsero il jazzista a venire in Italia raccontandogli che avrebbe dovuto tenere un piccolo show, composto da cinque brani, il primo dei quali era un inedito in italiano, “Mi va di cantare”, appunto la canzone in gara. Il cachet era alto anche per uno show: si parlava di 32 milioni di lire, quando in quegli anni ne bastavano 8 o 10 per comprare un appartamento in un condominio. «Trovo Gianni Ravera, che era il patron di Sanremo – continua il racconto di Catellani – e gli chiedo cosa significano quei cinque brani. “Per carità, stai zitto”, mi dice lui. “Se si accorge che non è vero, se ne torna in America”. E così abbiamo continuato la finzione provando cinque brani anche se sapevamo che ne avremmo suonato uno solo».
Louis Armstrong si esibì per ultimo, accompagnato dalla jazz band per metà reggiana. Conosceva sì e no le parole della canzone e così qualcuno gli scrisse il testo su alcuni grandi fogli messi davanti ai suoi piedi, sul bordo del palco; così Satchmo cantò sempre guardando verso terra, senza mai fissare il pubblico o la telecamera, salvo quando si metteva alla tromba per i suoi assoli o per una delle classiche smorfie con gli occhi a roteare tutt’intorno. Finisce “Mi va di cantare” e dopo gli applausi la band attacca il motivetto più celebre di sempre nel gospel, “Oh when the saints go marching in”. Però Armstrong non se ne va. Luisa Rivelli da dietro le quinte è pronta ad entrare in scena per presentare un ospite fuori concorso, ma bisognava mandare fuori Armstrong. Se ne incarica Pippo Baudo, alla sua prima esperienza a Sanremo, che entra in scena sventolando un grosso fazzoletto bianco (come a dire “ci arrendiamo”) per poi spingere la star del jazz fuori dal palco. «Armstrong si infuria come un pazzo, comincia a dire parolacce, a minacciare di non venire mai più in Italia. Uscendo inciampa anche in una cassetta vuota di birre rimasta dietro le quinte. Pippo Baudo col fazzoletto non ha fatto in tempo a vederlo, ero troppo impegnato a difendere fisicamente la tromba di Armstrong, uno strumento insostituibile». Nella sua casa, Catellani ha appeso alle pareti un sacco di fotografie che testimoniano di una vita vissuta tutta in primo piano. Una di queste, sopra al pianoforte, è un ritratto con dedica di Armstrong. «Quando venne in Italia – dice Catellani con un po’ di nostalgia – aveva una certa età e pensavo che come musicista fosse sorpassato. Invece quando me lo sono trovato di fianco ho scoperto che aveva ancora una carica incredibile, swingava che era un piacere. Ma la riprova più importante del suo valore veniva dai musicisti dell’orchestra di Sanremo. Ogni volta che era annunciato un cantante, nella buca degli strumentisti era tutta una critica o una presa in giro. Invece quando entrò Armstrong si alzarono tutti in piedi ad applaudirlo. I violinisti battevano gli archetti in segno di omaggio. Fu un trionfo. Non era mai successo prima di lui».l © RIPRODUZIONE RISERVATA