Il cardinale Ruini festeggia 70 anni di sacerdozio
L’8 dicembre 1954 l’ordinazione all’Almo Collegio Capranica di Roma
L’8 dicembre 1954, anno mariano, il diacono Camillo Ruini - studente nella Pontificia Università Gregoriana - veniva ordinato sacerdote nella cappella dell’Almo Collegio Capranica di Roma. Proprio di questi intensi 70 anni di sacerdozio abbiamo parlato con il cardinale Ruini.
Eminenza, il prossimo 8 dicembre lei celebrerà il 70° di ordinazione sacerdotale. Cosa ricorda di quel giorno?
«È stato un giorno unico, un grande traguardo e al contempo un inizio. Sono stato ordinato sacerdote, insieme ad altri sei alunni, nella cappella del Collegio Capranica, a Roma, che era stata completamente restaurata. Erano presenti i miei genitori e mia sorella Donata. I sentimenti che ho provato sono stati la gratitudine al Signore per il dono incommensurabile che mi faceva e la gioia: gioia di essere prete, gioia di essere chiamato a vivere e ad agire “in persona Christi”. A tutto ciò si accompagnava la consapevolezza della mia indegnità».
Quando decise di intraprendere gli studi teologici entrando all’Almo Collegio Capranica di Roma?
«Superato l’esame di maturità dissi ai miei genitori che volevo entrare in seminario. Per loro è stata una brutta sorpresa e un grande dolore. Mio padre pose la condizione che io mi laureassi e per questo sono andato a studiare a Roma, all’Università Gregoriana, e non al seminario di Reggio Emilia. Il Collegio Capranica è il seminario nel quale sono stato formato, mentre studiavo alla Gregoriana».
Quale bilancio può fare di questi suoi 14 lustri di sacerdozio?
«Il bilancio spetta al Signore. Posso dire di aver lavorato tanto, anche al di là di quel che mi veniva richiesto, e invece, purtroppo, di aver pregato poco. Il mio percorso si divide in due fasi: fino a 52 anni ho avuto incarichi significativi ma normali per un sacerdote. Poi, in otto anni, dal 1983 al 1991, sono passato da prete a vescovo e cardinale, presidente della Cei e vicario del Papa per la diocesi di Roma, con due compiti impegnativi: mettere in piena sintonia la Cei con il pontificato di Giovanni Paolo II e guidare, in aiuto al Papa, una diocesi “unica” come Roma. A distanza di anni – sono andato in pensione nel 2008 – penso di poter dire che ho lasciato, con l’aiuto di Dio, un ricordo abbastanza buono. Aggiungo che, appena pensionato, sono tornato ai miei studi e così ho pubblicato due libri, il primo su Dio e il secondo sulla vita dopo la morte, che hanno avuto una buona diffusione».
Oggi si registra un sensibile calo di vocazioni sacerdotali. A quali fattori può essere imputato?
«La diminuzione ha preso avvio da molto tempo, con la crisi dei sacerdoti risalente al Concilio Vaticano II. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II si era registrata una modesta ripresa ma poi le cose hanno ricominciato a peggiorare e in molti paesi la situazione è gravissima. La causa fondamentale è la crisi della fede, che investe soprattutto le giovani generazioni. La risposta sta quindi in primo luogo nella ripresa della fede, per la quale è essenziale la preghiera».
Oggi entrano in Seminario persone “adulte”, con alle spalle esperienze di studi universitari e di lavoro: è un cambiamento epocale?
«È un grande cambiamento, che ho potuto misurare personalmente: quando sono entrato in seminario, a diciotto anni, ero una “vocazione tardiva”. Poi, da cardinale vicario, incontravo ciascuno dei seminaristi della diocesi di Roma, che erano tanti: quasi tutti avevano terminato le scuole superiori e molti avevano già un lavoro. Penso che per il futuro dobbiamo guardare in questa direzione: le vocazioni sacerdotali sono sempre più il frutto di una scelta personale, che va contro corrente e che deve essere accolta dalla Chiesa con delicatezza e con amore, senza però accettare di tutto con la scusa che oggi mancano i sacerdoti».
I movimenti e le associazioni ecclesiali sono in grado oggi di preparare giovani a intraprendere la vita sacerdotale?
«Una percentuale notevole delle vocazioni sacerdotali proviene di fatto da movimenti e associazioni, la risposta è quindi positiva. A Roma e in molte altre diocesi il cammino neocatecumenale ha addirittura specifici seminari. Purtroppo però oggi buona parte dei movimenti e associazioni è in difficoltà e ha meno aderenti, quindi è prevedibile che ne nascano meno vocazioni».
Quale ruolo lei attribuisce alla figura del sacerdote nel Terzo Millennio?
«Il ruolo del sacerdote è sempre il medesimo: è il capo-servo della comunità cristiana, la sua guida nella preghiera, nella dottrina, nella vita concreta. Questi compiti vanno esercitati però in modi adeguati alle diverse situazioni ed epoche. Attualmente mi sembra che il sacerdote debba essere soprattutto un evangelizzatore essendo la fede stessa in crisi».
Quale tipo di formazione oggi deve avere un sacerdote?
«La formazione deve essere tale da preparare dei veri evangelizzatori, quindi delle persone in grado di far interagire il messaggio cristiano con la cultura del nostro tempo. Bisogna potenziare i programmi di studio dei seminari ma è la teologia cattolica che deve, da una parte, ritrovare piena fedeltà al magistero della Chiesa e dall’altra pensare in grande, affrontando con creatività i problemi di fondo».
Nel 1983 lei è stato consacrato vescovo. Cosa è cambiato per lei, soprattutto nel rapporto con i confratelli?
«I vescovi sono i successori degli Apostoli e hanno la pienezza del sacerdozio. I rapporti del vescovo con i suoi sacerdoti sono quindi inevitabilmente diversi da quelli dei sacerdoti tra loro. Personalmente ho vissuto questi rapporti dapprima con i miei confratelli di Reggio Emilia-Guastalla: ero vescovo ausiliare, quindi il mio episcopato doveva rinviare a quello del vescovo diocesano, il compianto e carissimo Monsignor Gilberto Baroni. Ho girato la diocesi come una trottola e oso dire di essere stato veramente al servizio dei confratelli. Dopo tre anni è cambiato tutto: andando a Roma come segretario della Cei ho avuto sì non pochi sacerdoti come collaboratori, a cominciare dal mio segretario particolare, il carissimo don Mauro Parmeggiani, che ora è vescovo di Tivoli e Palestrina, ma il mio compito era favorire la comunione tra i vescovi italiani. Poi, come vicario del Papa per Roma, ho ripreso a pieno ritmo a occuparmi dei sacerdoti. Con compiti di governo, naturalmente, ma anzitutto collaborando per uno scopo comune: il servizio del popolo di Dio, la pastorale, l’evangelizzazione. È essenziale, per questo, che i rapporti personali tra vescovo e sacerdoti siano sinceri, profondi, di reciproca fiducia».
Rifarebbe la scelta del sacerdozio?
«Certamente e con gioia. Ma, come dicevo all’inizio, la vocazione è un dono del Signore: perciò è a lui che dobbiamo sempre rivolgerci, nella preghiera».