«Ricordo mio padre rifiutare il fascismo. Da sindaco nel ’54 in Sicilia aiutai i minatori»
La testimonianza di Alessandro Armando Lo Giudice, che a Reggio Emilia vive da 20 anni
«A 14 anni rifiutai il ruolo di capo guardista nei Balilla perché sentivo già di non condividere le idee del fascismo. Cosa conservo nella memoria della guerra? Il bombardamento del paese in cui vivevo: mi ricordo della morte di un uomo e del fatto che l’impatto fu così forte da causare una crepa nella finestra della cucina». Alessandro Armando Lo Giudice, classe 1928, originario di Sommatino (Cl), piccolo Comune siciliano di cui divenne sindaco, ma a Reggio Emilia dal 2004, racconta episodi della sua gioventù, dai ricordi della guerra alla vita quotidiana di un’Italia in continuo cambiamento.
Ci puoi raccontare un po’ della scuola e di come l’hai vissuta?
«Durante gli anni della scuola elementare non ero tra i migliori studenti, ma decisi comunque di continuare il mio percorso. A dieci anni entrai a far parte dei Balilla (l’Opera Nazionale Balilla fu l’istituzione fascista per l’assistenza e l’educazione fisica e morale dei giovani, ndr) indossando la divisa, come era consuetudine a quel tempo. A 14 anni avrei dovuto avanzare al ruolo di capo guardista, ma rifiutai perché, nonostante la mia giovane età, sentivo già di non condividere le idee del fascismo. Probabilmente, questo era influenzato anche dal fatto che mio padre non si era mai iscritto al partito fascista. Per questo motivo, non completai le scuole medie in quel momento. Più avanti, tuttavia, ripresi gli studi e ottenni la licenza media, quando il mio lavoro lo richiese».
Com’era la situazione in famiglia?
«Dato che io e mio fratello eravamo i più piccoli, nostro padre aveva un po’ più di riguardo nei nostri confronti e, posso dire, fece di tutto per proteggerci. Un giorno, infatti, quando cominciarono a manifestarsi i primi segni del fascismo, ci portò dal podestà di Sommatino, il Comune siciliano dove sono cresciuto, e gli disse che non avrebbe potuto toglierci niente. Poi ce ne andammo. Fu un gesto coraggioso che mi colpisce ancora oggi. Nostro padre era un uomo forte ed esigente, che ci insegnò fin da subito i valori e il rispetto per le persone. Sfortunatamente, morì quando avevo 11 anni e, dopo solo cinque anni, ci abbandonò anche nostra madre. Da quel momento in poi, furono mia zia e le mie sorelle a prendersi cura di noi, in un periodo complicato e pieno di incertezze, senza un particolare aiuto perché parte dei miei fratelli era in guerra»
Hai un ricordo particolare della guerra?
«L’evento più memorabile è sicuramente il bombardamento nel nostro centro abitato. Mi ricordo della morte di un uomo e del fatto che l’impatto fu così forte da causare una crepa nella finestra della cucina. Decidemmo quindi di scappare nella nostra casa in campagna, lontano dal centro abitato, che non sembrava per niente sicuro. All’inizio mia madre era un po’ restia poiché non voleva lasciare la macelleria di famiglia incustodita: aveva paura che qualcuno potesse approfittarne (cosa che infatti accadde). Alla fine, però, riuscimmo a convincerla a scappare».
Cosa facevi quando usciva con gli amici?
«Quando ero giovane io non c’era molto da fare, non c’erano le opportunità di oggi: ci limitavamo a fare passeggiate per il centro, oppure andavamo al bar e, dopo aver preso qualcosa da mangiare, giocavamo a carte, chiacchierando per passare il tempo. Mio padre, però, preferiva che passassi il mio tempo alla macelleria, così da contribuire economicamente in casa, soprattutto perché i miei fratelli erano in guerra, mentre le mie sorelle si occupavano di noi insieme a mia madre».
Avevi un qualche piano per il futuro?
«Non avevo un piano preciso. Ricordo solo che, a 18 anni, prima di intraprendere la leva militare, mi iscrissi al Partito Socialista Italiano, senza però alcuna pretesa. Una volta tornato dalla leva, a 21 anni, venni eletto segretario della sezione socialista. Nel ’52, poi, ci furono le elezioni, e fui eletto consigliere comunale. Nel ’54, invece, il sindaco divenne segretario provinciale e io primo cittadino. La prima cosa che feci da sindaco fu mettere in regola i minatori e aumentare i loro stipendi dato che quello che percepivano non era sufficiente per sopravvivere».
Cosa ti ricordi del periodo della liberazione?
«Innanzitutto, va detto che ci volle molto tempo per riportare la città alla normalità dopo la guerra. La liberazione portò sicuramente cambiamenti, ma anche un clima di grande incertezza e tensione. Molte persone furono denunciate, spesso senza prove concrete. Ci fu, per esempio, un intellettuale comunista che, per aver difeso un mercante accusato ingiustamente, venne mandato in Africa. Questo accadde soprattutto perché, in quel periodo confuso e caotico, molte delle persone al comando erano fascisti, il che rendeva più semplice per loro sbarazzarsi di chi avrebbe potuto causare problemi».
*Studentessa del liceo Ariosto-Spallanzani di Reggio Emilia