Il primario di medicina Angelo Ghirarduzzi in pensione: «Evitare che i pazienti vengano sballottati di qua e di là»
«Quarant’anni a prendermi cura di pazienti sempre più complessi: oggi solo l’1% ha una sola patologia»
Reggio Emilia Li chiama compagni di viaggio e quando scomoda questa definizione, il sorriso gli si allarga in un misto di soddisfazione e un po’ di commozione, posologicamente una piccola dose, ma che ha comunque il suo effetto. Angelo Ghirarduzzi si appresta ad andare in pensione, e prima di passare il testimone a chi lo sostituirà nella guida del dipartimento di medicina interna e medicina cardiovascolare del Santa Maria Nuova, ha invitato i compagni del suo viaggio – professionale e anche umano – a due giorni di convegno per parlare proprio della medicina cardiovascolare tra passato, presente e futuro.
Dottor Ghirarduzzi, scorrendo i temi e i nomi dei relatori del convegno che ha organizzato non si può far a meno di notare come abbia davvero voluto mettere insieme maestri e allievi con cui ha lavorato in questi decenni...
«È così. Del resto, in questi ultimi temi mi è capitato di porre a me stesso la domanda sul motivo per cui ho scelto questa professione e più nel dettaglio, sul perché mi sia piaciuto occuparmi in particolare di medicina cardiovascolare».
E che risposte si è dato?
«Sulla scelta di fare il medico ha sicuramente inciso mio padre che faceva il medico condotto nella zona di Oltretorrente, nel Parmigiano. Il fatto che fosse quotidianamente impegnato nel prendersi cura di gente che non era certo facoltosa deve avermi trasmesso la predisposizione a prendersi cura delle persone».
È in questo senso che ha cambiato l’approccio alle malattie cardiovascolari?
«Credo di sì. Del resto, l’approccio del medico di famiglia è quello ti porta a considerare chi hai di fronte come una persona che magari, oltre a sintomi evidenti, ha bisogno di essere ascoltato anche sotto altri aspetti. Ecco, in questo senso ho cercato di portare la medicina cardiovascolare a un livello di lavoro multidisciplinare, coinvolgendo anche altre professionalità mediche e cercando poi di portare il tutto a una sintesi. Anche perché, occorre considerare un dato...».
Quale sarebbe?
«Sa in quale percentuale si incontrano oggi pazienti con una sola patologia?».
No, non lo so. Immagino in una percentuale molto bassa.
«I pazienti che soffrono di una sola malattia, oggi sono in genere pazienti giovani e stanno all’incirca dentro l’1% del totale».
Viceversa, in questi anni lei si è occupato anche di una patologia molto comune, come l’ipertensione, dando vita al Centro ad hoc all’interno del Santa Maria.
«E anche questa patologia non viene quasi mai da sola, ma ne causa o ne accompagna altre».
E le cure hanno fatto grandi progressi, non è vero?
«Certo e al Santa Maria Nuova abbiamo sempre cercato di stare al passo con gli studi e la ricerca, anche se la stella polare che personalmente mi ha sempre guidato è stata un’altra».
Ovvero?
«Avere sempre al centro la persona e i suoi bisogni. È come se facessi ogni volta una foto di ciò che ho davanti. Per avere una visione d’insieme devo usare un tipo di obiettivo che mi consenta di inquadrare il problema ma anche di avere lo sguardo su ciò che è attorno».
Nel convegno che ha organizzato si getta anche uno sguardo al futuro. Lei che futuro prevede per la medicina cardiovascolare?
«In questi anni mi sono preso cura di pazienti di tutte le età. E se c’è una cosa che dobbiamo cercare di salvare a tutti i costi, se vogliamo che sopravviva la sanità pubblica, è quella di evitare che i pazienti vengano sballottati di qua e di là, incontrando sempre medici diversi. Il rapporto umano che si instaura tra un paziente e il suo medico è fondamentale».l © RIPRODUZIONE RISERVATA