Gazzetta di Reggio

Reggio

L’intervista

Massari racconta i suoi primi 100 giorni da sindaco. «A Reggio la povertà è la vera emergenza»

Massimo Sesena
Massari racconta i suoi primi 100 giorni da sindaco. «A Reggio la povertà è la vera emergenza»

Il primo cittadino ha affrontato tutti i temi: dal lavoro alla sicurezza, dal trasporto pubblico alle elezioni regionali

19 ottobre 2024
12 MINUTI DI LETTURA





Sindaco Massari, cento giorni magari non le consentono di portare dei risultati, ma sicuramente un’idea di ciò di cui ha deciso di farsi carico se la sarà fatta. Pentito della scelta?

«No. Del resto, sarebbe grave che dopo pochi mesi volessi già tornare indietro. Ma soprattutto non sono per nulla pentito perché è un lavoro che mi appassiona, mi trovo molto bene a lavorare con la mia giunta, così come mi trovo bene a parlare con le persone che incontro quotidianamente».

Tutte? Anche quelle che ce l’hanno con il Comune?

«Ho le spalle larghe, ascolto anche le lamentele, come del resto ho sempre fatto anche quando facevo il medito. Ma in genere devo dire che mi sento in sintonia. E in questo mi aiuta il mio passato di medico».

In che senso?

«Nel senso che fin dal primo giorno per me non è stato difficile applicare lo stesso approccio che avevo quando indossavo il camice. Al Santa Maria mi prendevo carico del paziente. E qui, da sindaco faccio altrettanto, cerco di farlo con le istanze dei cittadini e i problemi della città».

In questi primi 100 giorni che idea s’è fatto di Reggio?

«In generale, una città che sconta i problemi delle altre città simili per dimensioni, che magari necessita di attenzione su alcuni aspetti, come la cura e la manutenzione, la pulizia nei quartieri, la tutela dell’ambiente, la sicurezza. Tutti temi su cui il Comune si sente protagonista ma non vuole sentirsi solo. E non si tratta soltanto di ascolto ma di un dialogo che deve essere necessariamente costruttivo: tutti dobbiamo sentirci ingaggiati a migliorare il posto in cui viviamo».

Dovesse stabilire – come fosse al triage del Santa Maria – quali sono le urgenze di questa città, da dove partirebbe?

«Purtroppo non ho bisogno di pensarci tanto: leggo sulla Gazzetta di oggi (ieri, ndr) che sessanta persone rischiano il posto per la decisione della proprietà di delocalizzare la produzione. Questo significa per sessanta famiglie il rischio di entrare a far parte di quella fetta di popolazione, invero sempre più grande, per cui si pone il problema di arrivare a fine mese. Poi, sempre dal giornale arriva l’ennesimo grido d’allarme per un altro tipo di povertà, anch’essa in aumento. Parlo della povertà abitativa, che porta sempre più persone a incontrare crescenti difficoltà a trovare un tetto sotto cui vivere. Le tipologie sono le più varie: dai padri separati agli stranieri, ai lavoratori precari. E poi anche di una vera e propria piaga che si è fatta in questi anni più grave».

A cosa si riferisce in particolare?

«A quello che potrei definire lavoro povero. Penso a tutte le persone che hanno un lavoro ma che non ricevono un compenso sufficiente a mantenersi con i costi della vita attuali. La crescita di queste forme di povertà, corroborata dai dati diffusi dall’Istat (nel 2023 si stimano poco più di 2,2 milioni di famiglie in povertà assoluta con un’incidenza, pari all’8,4% rispetto al totale delle famiglie, ndr), questa credo sia la vera emergenza a cui dobbiamo fare fronte. Per questo ci siamo mossi subito e abbiamo intenzione di confrontarci con tutti in modo a avere visuali del problema da punti di osservazione diversi in modo da arrivare una sintesi che possa essere quella di soluzioni il più possibile condivise».

Dopo anni in cui sembrava dominante la disintermediazione, tornano protagonisti i corpi intermedi?

«Lei li chiama corpi intermedi, io credo che chiunque può dare un contributo debba essere ascoltato. In questo senso io mi muovo fin dal primo giorno vanno valorizzati. Sarà anche più faticoso, ma dobbiamo sforzarci di essere produttivi».

Lo avrà sentito dire in questi mesi d’insediamento: dietro Massari c’è Delrio. Una sciocchezza o c’è del vero?

«Se si riferisce al presente, mi sento di dirle che sì, è una sciocchezza. Certo, se andiamo indietro nella mia candidatura, se vogliamo ricostruirne la genesi, è evidente la mia candidatura che non è nata sotto un cavolo. Sicuramente, nel contesto in cui è andata maturando la possibilità che io mi candidassi a fare il sindaco, è stato interpellato l’ex sindaco e senatore del Pd. Che poi io e lui siamo amici, non credo sia un mistero per nessuno: ci siamo laureati lo stesso giorno e ci conosciamo da una vita. Ma quello che mi sento di dire è che ogni decisione presa fin qui è esclusivo frutto del confronto e dell’elaborazione di idee e progetti che avviene all’interno della mia giunta».

Quando, formando la giunta, ha assegnato le deleghe ai vari assessori, ne ha tenute parecchie per sè. E’ arrivato il momento di distribuirle o per il momento si va avanti così?

In quel momento ho ritenuto importarle tenerle per avviare i processi in un modo corretto e coordinato. Nei primi mesi del prossimo anno potremo, insieme alla giunta, ragionare sul da farsi.

E, sempre per restare in tema di malelingue, avrà sentito dire anche che la riforma della macchina comunale che avete avviato in queste settimane ha un regista in Mauro Bonaretti...

«Io ho individuato per il ruolo di direttore generale la figura della dottoressa Francesca Mattioli che non conoscevo e con la quale sono entrato da subito in sintonia. In questo come in altri casi Mauro Bonaretti è una persona, che ha rappresentato la figura preziosa di consigliere, una persona che ho sentito e con la quale mi sono consultato proprio in ragione delle sue competenze, ma come sempre in termini di contenuti ma non di caselle da occupare. Stiamo ragionando in termini di cose da fare e le competenze le cercheremo attraverso bandi e selezioni come prescrive la legge».

Al netto di queste voci la preoccupazione, anche nei dipendenti comunali c’è. La necessaria riorganizzazione non rischia di fermare la macchina comunale?

«Non credo che ciò accadrà, anche perché cercheremo di non procrastinare le scelte, rispettando i tempi che ci siamo dati».

C’è poi chi dice che non servano soltanto dirigenti ma anche funzionari, che in questi anni di tagli, la macchina comunale abbia perso anche braccia e non solo cervelli. Lei cosa ne pensa?

«Abbiamo problemi di leggi e di vincoli: la pianta organica è di 1.600 persone, ci sono caselle che vanno riempiti ma in questo momento non ci è consentito di farlo. Quello che posso garantire è che coglieremo ogni occasione che ci verrà data per potenziare la macchina comunale».

Ultima dose di veleno: c’è chi va dicendo che una delle cause della mancata candidatura di Vecchi alle Regionali sia dovuta al fatto che lei avrebbe posto il veto all’ingresso di Federico Amico in giunta. Lei cosa dice?

«Dico che è falso. Non ho posto nessun veto, semplicemente perché questa proposta non mi è mai stata formulata. E se mi è concesso vorrei aggiungere un mio pensiero...».

Prego...

«Il mestiere della politica è un mestiere che ha una sua dignità. Dire che chi fa politica non ha mai lavorato non è giusto e non è corretto. Io sono convinto che alla politica intesa come l’azione di chi si occupa del bene comune vada riconosciuta la giusta dignità».

È con questo spirito che, gran parte degli assessori che lei ha scelto stanno lavorando in silenzio? Si tratta in gran parte di persone che la loro carriera professionale l’hanno già alle spalle e che quindi non possono essere accusati di essere attaccati alla poltrona...

«Diciamo che, oltre a giovani preparati e carichi di entusiasmo, alcuni dei quali più esperti di me della macchina comunale, ho voluto accanto a me persone che conosco e che stimo e che, una volta terminata l’esperienza amministrativa per la città, potranno scegliere liberamente del loro futuro, senza l’assillo di dover per forza tornare al lavoro o anche solo con la possibilità di tornare a fare quello che facevano prima».

Un primo segno di discontinuità si è visto sul tema caldissimo della sicurezza in stazione con lei che ha richiesto, al pari di altri suoi colleghi, di poter utilizzare l’esercito. C’è un seguito? Sta facendo pressioni sul prefetto e sul governo?

«Stiamo confrontandoci con i comitati non soltanto nella zona della stazione: i problemi di ordine pubblico vanno gestiti da coloro che hanno le competenze. Per questo ho chiesto alla prefetta di farsi portavoce della richiesta di avere un presidio dell’esercito in città. Per questo ho contatti quotidiani con il questore, il nuovo comandante dei carabinieri oltre che con il comandante della municipale. L’assessora Bondavalli si sta spendendo quotidianamente nel confronto e nel dialogo con i cittadini, e il focus sul quartiere della stazione riguarda diversi aspetti: da quello della criminalità, a quello del degrado, fino all’aspetto socio-sanitario. Senza alcuna sottovalutazione, anzi cercando di sviscerare i problemi il più possibile».

Al punto da porre l’accento sull’aspetto socio sanitario dell’allarme sicurezza in stazione. Cosa significa?

«Per governare certi fenomeni occorrono le competenze. Servono gli strumenti giusti per capire cosa succede zona per zona, strada per strada. Per questo abbiamo interlocuzioni costanti con l’azienda Usl che ci dicono che la gran parte dei reati che si commettono in quella zona della città è legata al consumo di crack».

Sta dicendo che siamo tornati agli eroinomani che negli anni ottanta popolavano piazza San Prospero piuttosto che l’ex campo Tocci o i giardini?

«Con una sostanziale differenza. Il tossicodipendente da eroina, una volta che era riuscito a procurarsi la dose e a iniettarsela, diventava, per effetto di quella droga, quasi inoffensivo. Con il crack tutto questo non succede: il tipo di reati a cui assistiamo sono commessi per trovare i soldi per la dose: la rapina, la spaccata di un’auto parcheggiata. Poi però il crack in corpo aggiunge alla violenza altra violenza, una ulteriore dose di aggressività».

Fin qui la fotografia della situazione. Ma poi che si fa?

«Potenziare il controllo del territorio, presidiarlo per dare più sicurezza. Poi, oltre alla repressione serve anche che ci si faccia carico di pendenze e dei loro effetti sulla collettività. Personalmente sono in contatto da tempo con il sindaco di Torino alle prese con problematiche analoghe, così come, assieme alle unità di strada della Comunità Papa Giovanni si sta cercando di arginare il fenomeno che non di rado finisce per assumere dimensioni croniche per cui potrebbero rivelarsi inadeguate le stesse Rems o altri tipi di residenze protette a cui si dovrebbe ricorrere in questi casi».

Intanto sull’altro fronte, mentre vi occupate delle vittime del crack, ci sono le vittime delle vittime del crack, ovvero i residenti della zona stazione.

«Anche su questo fronte non stiamo con le mani in mano. Parliamo di un quartiere abitato per l’85% da persone che non sono nate in Italia. Dobbiamo cercare di coinvolgerli nel controllo e nella cura del luogo in cui vivono. Facendo capire loro che è nel loro interesse fare in modo che chi lascia la spazzatura per strada va denunciato e sanzionato».

Più facile a dirsi che a farsi: a fronte di un quartiere per l’85% straniero, il 15% italiano se ne sta barricato in casa...

«La nostra sfida è anche questa: prima dobbiamo portare sicurezza dove non c’è partendo dal presupposto che ciò che viene quotidianamente denunciato è reale».

Quella di non sottovalutare né gli allarmi né gli appelli sembra voler essere un suo tratto distintivo.

«Sono un medico, se sottovalutassi i sintomi di una possibile malattia non farei il mio lavoro. Al di là di una frase fatta, il tema del rispetto delle leggi deve essere centrale. Ne sono così convinto che il 25 ottobre abbiamo fissato una riunione della Consulta per la legalità a cui abbiamo invitato i giudici del collegio del processo Aemilia, il dottor Francesco Caruso, la presidente del tribunale di Reggio, Cristina Beretti e il giudice Andrea Rat. Sarà l’occasione per riflettere su quali siano state le conseguenze, a quasi dieci anni di distanza dagli arresti, della lotta alle infiltrazioni della ’ndrangheta in Emilia».

Da un tema caldo a un altro: il tema del trasporto pubblico è un altra spina nel fianco. Lei si è fatto portavoce di un messaggio forte, sostenendo che serve un cambio di passo da parte dell’azienda. Un bello slogan... Che seguito deve avere secondo lei? Cosa si aspetta da chi guida Seta?

«Seta è una società che in questi anni sta rinnovando radicalmente il proprio parco mezzi e già nei prossimi mesi potremmo disporre anche sul nostro territorio di macchine modernissime. Il problema, almeno per quello che riguarda il nostro territorio è quello degli autisti, che sono meno di quelli di cui avremmo bisogno e vengono reclutati nella maggior parte dei casi da altre zone d’Italia. Poi c’è sicuramente un problema di relazioni sindacali che, negli anni, si sono sempre più deteriorate, anche per il fatto che Seta a stipulato contratti diversi nelle tre province in cui opera. Questa cosa va sanata attraverso una maggiore attenzione al nostro territorio. Esiste un problema di governance e anche di ridefinizione delle linee e delle tratte del trasporto pubblico, ferme a decenni fa mentre il mondo è cambiato. Entro fine mese occorre che si metta mano a questi temi».

Cosa ha in mente Massari?

«Innanzi tutto dobbiamo trovare unità di intenti tra noi, Modena e Piacenza. Eliminando laddove è già possibile le differenze che oggi ci dividono. E questo anche in ottica futura, quando parlando di trasporto pubblico integrato dovremo essere strutturati per confrontarci con Tper».

Da una municipalizzata all’altra: quale sarà il rapporto del Comune capoluogo nei confronti di Iren che in questi anni ha acquisito ruoli quasi di supplenza nei confronti degli enti locali?

«Da soci chiediamo che Iren sia sempre più attenta alle esigenze territoriali consapevoli come siamo che una realtà come questa che in questi anni è cresciuta nel mercato globale è per noi un aiuto importante disponendo di strumenti tecnici e finanziari che possono aiutare molto gli enti locali».

Il rischio è che la contropartita sia il silenzio sui mega-stipendi che spesso si danno i manager di queste maxi-utilities.

«C’è sicuramente un tema di equità, non lo nego: del resto, i top manager hanno un loro prezzario fatto dal mercato. Secondo me, forse, nel caso di Iren per la prima volta si è invertita la tendenza, promuovendo al ruolo di amministratore delegato una professionalità che negli ultimi dieci anni ha fatto parte del management interno».

Da medico è preoccupato del futuro della sanità pubblica e di conseguenza del futuro del Santa Maria nuova?

«I dati peggiorano: ci sono sempre più persone che ricorrono al portafoglio e c’è chi addirittura rinuncia alle cure. E il sistema va ripensato, in Emilia Romagna ci sono livelli di eccellenza che vanno salvaguardati. Ma i segnali che arrivano da Roma non sono buoni e io, non lo nego, sono preoccupato. È quasi una agonia: e questo solo perché non si ha il coraggio di dire dove si vuole andare a parare».