Il parco letterario in Appennino
La riflessione del prof. Carlo Alberto Gemignani su un’esperienza fra narrazione e conservazione
Il termine “parco letterario” inizia a circolare in Italia a partire dai primi anni Novanta. L’idea alla base dei diversi progetti oggi attivi è quella di utilizzare le parole di narratori, poeti e cantautori per aiutarci a cogliere le forme di organizzazione del territorio, gli ambienti sociali e naturali, le crisi e le trasformazioni espresse nelle tracce lasciate nel paesaggio. L’osservatore ha così a disposizione una chiave di lettura che gli consente di orientare il proprio sguardo allineandosi ad essa (come spesso accade al turista) o allontanandosene, considerando – perché no? – la narrazione non più al passo coi tempi.
Alla base di un parco letterario c’è quindi un itinerario, un tracciato che corrisponde ad una storia, ad un plot narrativo con funzione di guida. Le sue tappe sono di solito materialmente segnate da targhe, totem, installazioni contenenti citazioni posizionate nei luoghi che trovano riscontro e richiamo nelle opere letterarie. Le troviamo presso spazi puntuali (un edificio o una sua parte, un tratto di strada, un albero o un bosco ecc.) o in siti che a loro volta consentono visioni conoscitive d’insieme (punti panoramici, prospettive, scorci).
C’è chi ha definito i parchi letterari (e in genere i parchi culturali) slippery objects: è difficile capire se la loro funzione sia finalizzata alla pianificazione territoriale, al turismo, alla promozione istituzionale, alla musealizzazione del patrimonio o al consolidamento di identità locali più o meno inventate. Temi così accavallati da rendere impossibile definire a priori e con sicurezza destinatari (abitanti o turisti?), ricadute economiche e sociali, soggetti (individuali e collettivi) coinvolti nella progettazione. Probabilmente però la vera domanda che ci dobbiamo porre è: cosa deve comunicare un parco letterario/culturale nell’epoca della crisi ambientale contemporanea?
Ci viene in aiuto un saggio del 2014 di Pablo Gonzalez e Alfredo Vazquez, (Between planning and heritage: cultural parks and national heritage areas). Gli autori ci ricordano come il dibattito italiano intorno alla gestione ambientale abbia ormai superato la concezione della conservazione come creazione di spazi chiusi e interdetti a ogni pratica (ad esempio i “santuari naturali”, secondo la prospettiva della vecchia scuola naturalista-funzionalista americana). Il parco è oggi uno strumento al servizio della gestione di sistemi territoriali più ampi, fondati su relazioni complesse che intrecciano sfera ecologica, sfera sociale e produttiva.
Nel nostro contesto appenninico è all’interpretazione del ricco palinsesto storico-ecologico espresso nelle forme del paesaggio rurale (per usare un termine caro ad Emilio Sereni) che dovrebbe rivolgersi la progettazione di un parco letterario. Soprattutto, un parco letterario dovrebbe servire al riconoscimento dei produttori (passati e presenti: pastori, contadini, vignaioli, casari, artigiani) di “quel” paesaggio e di “quelle” relazioni ecologiche. Uno strumento così concepito aiuterebbe a superare letture culturali dei luoghi troppo semplicistiche, basate sia sulle categorie più rigide del discorso ambientalista (Natura sempre positiva, uomo sempre negativo) sia su quelle più banalmente estetico-emozionali (il paesaggio come mero marchio di promozione turistica). Chi meglio di Silvio D’Arzo, Guido Cavani, Luigi Malerba, Raffaele Crovi, Francesco Guccini, Giovanni Lindo Ferretti e Sandro Campani possono restituirci quel grande repertorio di segni, nomi, storie, pratiche e relazioni ecologiche virtuose e fragili che è il paesaggio dell’Appennino emiliano?