Gazzetta di Reggio

Reggio

Cooperative di comunità contro lo spopolamento

Alice Benatti
Cooperative di comunità contro lo spopolamento

Con Giovanni Teneggi alla scoperta di un modello sociale che svolge un ruolo di rigenerazione delle economie locali

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Originario di Rosano di Vetto ma residente a Castelnovo Monti, Giovanni Teneggi (nella foto in alto a sinistra) l’Appennino Reggiano non solo lo vive ma ne è un profondo conoscitore, in particolare del suo hummus cooperativo. In Confcooperative ricopre diversi ruoli di prestigio: cura lo sviluppo di cooperative di comunità a livello nazionale, è responsabile dell’area Ricerca e Sviluppo Terre d’Emilia (che comprende Reggio Emilia, Modena e Bologna) e direttore della sede reggiana. Non da ultimo, è presidente di Ifoa Reggio Emilia. Il 25 luglio, proprio nella sua Castelnovo Monti, precisamente presso l’agriturismo “Il Ginepro”, ai corsisti della summer school “Paesaggio, comunità, sostenibilità” – promossa dall’Unione Montana –, parlerà di cooperative di comunità, portando come esempi quelle fiorite dall’inizio degli anni Novanta a oggi.

Quale sarà il cuore del suo intervento?

«Il grande tema dell’allestimento ed attivazione di comunità in Appennino, che ci ricordiamo spesso per come era in passato: con le sue celebrazioni, riti, scambi economici. Ma tutto questo mondo, oggi, non è più presente come allora. In molti casi il territorio è diventato semplicemente la location di un’attività economica e non l’ecosistema in cui si colloca. Ecosistema che, però, necessità di essere riallestito perché sono i territori ad averne bisogno. L’occasione della summer school nasce dall’attività che da anni viene sviluppata da Confcooperative e dalla cooperazione tutta in termini di riallestimento comunitario attraverso lo strumento delle cooperative di comunità».

Ecco, partiamo da qui. Che cosa sono le cooperative di comunità?

«Sono cooperative partecipate da abitanti, imprese, associazioni, istituzioni locali di un singolo paese o vallata che nascono per rimettere in gioco risorse del territorio e contrastare il suo impoverimento, sociale ed economico. In concreto facendo rivivere luoghi o trasformandoli per rispondere ad un’esigenza avvertita nella comunità in cui si vive».

Qualche esperienza nata di recente?

«Abbastanza recente è quella nata a Costabona, borgo di Villa Minozzo tenuto in vita da diverse attività che gli abitanti portano avanti. C’è la compagnia del Maggio, un locale gestito da giovani, “La Officina Costabona”. Quest’ultima è nata dalla passione per l’agricoltura, in particolare per il grano, di alcuni proprietari di terreni a Costabona che informalmente portavano avanti la tradizione della trebbiatura. Ad un certo punto, hanno pensato che potevano trasformarla in un’attività economica. Così hanno fondato una cooperativa di comunità e oggi gestiscono le attività di trasformazione del grano fino alla farina ed altri prodotti, portando sul territorio sia valore economico che turisti. Un’altra esperienza recente interessante è quella della cooperativa di comunità “Valcampola” a Pecorile. In pochi penserebbero che sia utile in una frazione ben servita a 15 minuti da Reggio Emilia, invece lo è. Questa realtà si fa, infatti, manifesto di un punto fondamentale: le cooperative di comunità non riguardano solo alcune aree geografiche, come quelle montane, ma vedono coinvolti paesi, borghi di pianura e anche quartieri di città perché ovunque guardiamo uno dei drammi più diffusi è la solitudine mentre uno dei beni più preziosi e ricercati è proprio la comunità stessa».

Guardando al nostro territorio, quali sono le cooperative di comunità esistenti?

«Oltre a quelle già citate, abbiamo “Il Pontaccio” a Vetto, “Altimonti” a Civago, “San Rocco” a Ligonchio, “Vallenera” a Vallisnera, “Briganti del Cerreto” a Cerreto Alpi e “Il Quadrifoglio” a Castelnovo Monti. Quest’ultima si è costituita nell’inedita forma della cooperativa sportiva di comunità ed è nata da associazioni del settore che si sono messe insieme per cominciare a proporre, oltre ad attività legate alla loro rispettiva disciplina sportiva, un’offerta più ampia legata alla salute e all’educazione».

La “Valle dei Cavalieri” è nata nel 1991. A distanza di oltre 20 anni resiste...

«È stata una delle prime cooperative di comunità a nascere in Italia e anche una delle più raccontate. Nel 1991 a Succiso aveva chiuso il bar, l’ultima saracinesca rimasta alzata. E alcuni ragazzi della Pro Loco capirono che sarebbe stato uno shock perché se il bar moriva…il paese sarebbe morto. Così costituirono la cooperativa e riaprirono il locale con l’istinto di preservare questo luogo di aggregazione. Al bar, nel corso del tempo, hanno poi aggiunto altre attività economiche così da offrire più servizi alla popolazione e consentire agli enti pubblici di far rivivere il proprio patrimonio inutilizzato. La scuola chiusa è diventata un ristorante poi un centro visita del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. Hanno anche riaperto un’azienda agricola per l’allevamento di pecore».

In un suo articolo di qualche anno fa parla delle cooperative di comunità come di imprese culturali. Perché?

«Dal punto di vista economico per essere credibili ed efficaci le cooperative di comunità devono tenere insieme quattro dimensioni e una di queste è proprio quella culturale. Occorre, infatti, che restituiscano al territorio e ai suoi abitanti un racconto. Insomma, cultura come narrazione del vivente. La cooperativa di comunità “Viso a viso”, ad esempio, nata nel 2020 nel Comune di Ostana, ai piedi del Monviso, ha fatto della dimensione culturale il suo elemento principale».

Se dovesse scattare oggi una “fotografia” alla composizione delle comunità dell’Appennino, come la vedrebbe?

«Il territorio della montagna ha diverse comunità che si sovrappongono e convivono, a volte senza incrociarsi. La prima è quella degli abitanti d’uso della montagna, che ne godono per sé perché lì hanno casa lì e non cercano altre trasformazioni. Ci sono anche i residenti d’uso, che arrivano dall’esterno e condividono con il primo gruppo questo uso “estrattivo” della montagna. C’è poi la comunità degli abitanti trasformativi, che hanno deciso di stabilirsi in montagna perché hanno colto l’opportunità di viverci bene, nell’ottica di realizzare un sogno. Abbiamo storie pazzesche di persone che si sono trasferite in Appennino da Milano o Londra, in alcuni casi non avendo contatti precedenti, perché ritenevano che il loro sogno di vita fosse realizzabile solo in questo luogo. C’è infine una terza comunità, quella degli adolescenti tra i 15 e i 18 anni residenti in Appennino. Quest’ultima fatichiamo ad ascoltarla e ad iniziarla all’adultità. Ma, così facendo, la candidiamo ad andarsene».