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Totò Rossini fra il volley e l’ingegneria, «Olimpiadi? Possiamo ancora farcela»

Maria Roberta Rovere*
Totò Rossini fra il volley e l’ingegneria, «Olimpiadi? Possiamo ancora farcela»

L’intervista all’ex libero della Nazionale «Le nostre squadre andranno alle Olimpiadi»

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«In quel momento ho dovuto scegliere se restare a casa, con i miei amici, genitori e comfort, oppure provarci». Con queste parole Salvatore Rossini, pallavolista della squadra di serie A2 Wow Green House Aversa, ripercorre il momento in cui la vita gli ha offerto un’occasione portandolo prima a Latina e poi a Modena, città in cui la sua carriera sportiva è decollata. Fino alla scorsa stagione, infatti, Rossini ha militato nel ruolo di libero in Superlega, il massimo campionato pallavolistico, con la Valsa Group Modena, squadra con cui ha vinto nella stagione 2015-2016 la storica triplete e, nella stagione scorsa, la CEV Cup. Il passaggio più luminoso della sua carriera, però, è stato certamente inaugurato dalle prime convocazioni in Nazionale, che lo hanno portato ad aggiudicarsi nel 2015 l’argento alla Coppa del Mondo e il bronzo al campionato europeo, mentre nel 2016 quella d’argento ai Giochi della XXXI Olimpiade. Una storia di impegno e sacrificio che non vede soltanto il conseguimento di risultati sportivi: Rossini, infatti, ha sempre alternato alla palestra le ore di studio, riuscendo a conseguire prima il traguardo della maturità scientifica, poi, nel 2021, quello della laurea in Ingegneria all’Università di Modena e Reggio Emilia.

Come si è avvicinato al mondo della pallavolo e quand’è che ha iniziato a giocare?

«Ho iniziato a giocare per scherzo. Papà non era un giocatore di pallavolo né uno sportivo ma un ingegnere e quindi lavorava in fabbrica. Quando tornava a casa io, per stare insieme, andavo a giocare a pallavolo insieme a lui e ai suoi amici nei campetti. Talvolta capitava che si ammalasse qualcuno, quindi mi chiedevano di sostituirlo. Fondamentalmente è partita da lì questa mia passione».

Ci sarà stato un momento, una partita, una persona che le avrà fatto fare un “salto di qualità”, facendole capire che poteva esserci un futuro. Quando si è verificato?

«Io sono nato in una città, Formia, in cui la massima squadra di pallavolo maschile era una serie D. La strada per arrivare a diventare un giocatore professionista era molto lontana. Il primo passo sicuramente è stato quando mi hanno selezionato per le giovanili a Latina, che invece aveva una squadra di A1. Lì, in quel momento, ho dovuto scegliere se restare a casa, con i miei amici e i miei genitori e con i miei comfort, oppure provarci. Quello è stato un primo bivio perché lì mi hanno detto che, se avessi voluto provare a giocare in Serie A, avrei dovuto cambiare ruolo e quindi da schiacciatore sono diventato libero. Un altro momento importante si è verificato quando, quasi 23enne, un allenatore di A2, con cui disputavamo tante amichevoli per una questione geografica – io giocavo in Toscana e lui allenava in Umbria –, vedendomi giocare ha detto: “L’anno prossimo voglio lui come libero”. Mi ha fatto la proposta, che ho subito accettato, di provare a giocare in A2. Da lì è stata poi un’escalation perché in serie A è diverso, i ritmi sono anche più veloci, e quindi è iniziata la trafila. Questi due momenti sono stati quelli principali».

Lei ha giocato in squadre molto importanti. In quale pensa di esser cresciuto di più a livello tecnico e in quale a livello personale?

«Il percorso svolto a Modena sicuramente è stato quello più formativo da entrambi i punti di vista. Sono arrivato a Modena che già giocavo in Nazionale, però ancora non avevo mai vinto nulla a livello di club, mi mancava quel qualcosa per affermarmi in maniera completa. Ero relativamente giovane, avevo 26 anni, e da lì sono andato via l’anno scorso, che ne avevo 36. Nel mentre mi sono sposato, ho avuto un figlio e sono cresciuto anch’io. Giocare a Modena è come giocare in poche parti d’Italia e del mondo, per la pressione, per la gente, per la qualità del lavoro che si svolge. È stata sicuramente l’esperienza più importante».

Quand’è stata la sua prima convocazione in Nazionale e che cosa ha provato?

«Era il 2012, giocavo a Latina e prendevo il treno per comodità per tornare a casa a Formia. Un giorno mentre salivo sul treno mi squillò il telefono, ma, non conoscendo il numero, non risposi. Richiamai dopo un po’ e, dall’altro capo, c’era Mauro Berruto – allora C.T. della Nazionale maschile–, il quale mi parlò della convocazione. Ero così felice da poter spingere personalmente il treno. L’altro momento indimenticabile è stato quello della consegna della divisa azzurra. Quella prima volta aprii la borsa come uno scrigno del tesoro: leggere “Rossini” con il Tricolore sul petto era un’emozione fortissima».

Lei è scaramantico? Ha qualche rito che compie prima di una partita?

«Avevo alcuni riti quando ero ragazzo e magari meno formato. Ora non ne ho uno vero e proprio ma una serie di movimenti, azioni che faccio, che mi danno sicurezza. Ad esempio, prima di una ricezione float, faccio sempre il movimento del bagher con le braccia, come se lo ripassassi».

È riuscito a conciliare sport e studio. Pensando ai giovani, che spesso devono rinunciare a una delle due cose, lei come ha fatto da giocatore professionista a laurearsi?

«Ho avuto una fortuna che, a mio parere, deve essere la base di tutto: mi piaceva molto quello che facevo. Sia in campo sia fuori. Ho incrociato due ambiti che amavo e amo ancora molto, la pallavolo e i numeri. È importante che i giovani trovino qualcosa che piaccia loro veramente, sia a livello sportivo che di studio. L’altra fortuna che ho avuto è che dormivo poco, non amavo i tempi morti e organizzavo molto bene le attività. Programmavo in anticipo quanto tempo dedicare a ciascun impegno. Studiavo prima dell’allenamento del mattino e poi, di nuovo, il pomeriggio o la sera. È importante trovare ciò che si ama veramente, per avvertire meno fatica, e poi organizzarsi per bene».

Quest’anno si terranno le Olimpiadi: Parigi 2024. Facciamo però un salto nel tempo, nel 2016, alle Olimpiadi in cui lei ha partecipato arrivando, con l’Italia, seconda. Col senno di poi, il secondo posto è stato meritato o si poteva fare di più?

«È stata un’esperienza bellissima. Una vera e propria escalation perché non avevamo avuto una prima parte d’estate brillante, però siamo andati lì e, un po’ alla volta, abbiamo iniziato a vincere le partite. Quella della finale olimpica non è stata molto lineare, ci sono stati degli errori dovuti anche alla tensione. Tra i nostri avversari, circa 7 avevano già giocato due Olimpiadi, dunque forse erano più temprati alla pressione. Sicuramente l’argento è stato strameritato, ma magari se avessimo giocato un’altra Olimpiade, nelle stesse condizioni, saremmo stati da oro».

Sia la nazionale maschile che femminile non si sono qualificate alle Olimpiadi di quest’anno, si spera nel ranking mondiale. Secondo lei abbiamo qualche possibilità? Che cosa direbbe a quei giocatori appena arrivati in nazionale maggiore e che probabilmente si troveranno convocati per le Olimpiadi?

«La prima cosa che direi è di godersi l’esperienza. Io ho giocato due Mondiali, ma neanche se ne avessi giocati quattro li cambierei con una Olimpiade. Penso che la femminile e la maschile vinceranno i propri gironi per entrare nelle Olimpiadi. Sono speranzoso che i maschi, fra cui i miei tanti amici che giocano in Nazionale, facciano bene. Le donne sono fortissime. Potenzialmente sono il gruppo, secondo me, più completo. Sarebbe bello se tutte e due le Nazionali riuscissero a portare a casa un metallo. Vediamo poi di che colore.

Che obiettivi ha per il futuro? Quando, un giorno, andrà in “pensione” rimarrà nell’ambiente pallavolistico o vorrà fare tutt’altro?

«Un avvicinamento alla pensione lo sto avviando: sto iniziando a dare maggiore importanza alla mia attività di ingegnere e alla collaborazione con l’Università. Se dovessi rimanere nella pallavolo, non vorrei farlo ad alto livello. Mi piacerebbe allenare dei bambini e mi piacerebbe trasmettere un po’ di passione anche ai ragazzi».

Se dovesse aggiungere e togliere una regola dalla pallavolo, quali sarebbero?

«Parlando da libero e rimanendo coi piedi per terra, darei la possibilità al libero di palleggiare dentro i 3 metri in modo da creare una sorta di doppio palleggiatore.Eliminerei come regola, il fatto che in battuta valga il nastro. Ritorniamo al passato: se la battuta tocca il nastro è fallo. Perché io rosico quando arriva una battuta forte e tocca il nastro e poi scende e mi fa ace, invece io voglio prendere l’ace perché sbaglio io. Almeno so dove migliorare».

*Studentessa del liceo Moro