Io, bullizzata: ora li perdono
La testimonianza di una studentessa dell’istituto Secchi
Reggio Emilia Tutto è partito alle elementari. Non sono mai stata portata per la matematica e ciò mi fece prendere di mira dalla prima maestra che mi ha insegnato questa materia. Venivo sempre derisa davanti a tutti da lei, facendomi poi passare per l’oca della classe. Un giorno andai a piangere fra le braccia di mia mamma. Lei ancora oggi dice che dovrei dimenticare e in realtà molte altre persone me lo dicono, ma come fai a scordare una cosa simile quando eri solo una bambina di sei anni che si approcciava a qualcosa che ancora oggi per lei è astratto? Me lo chiedo ancora, quando mi dicono che dovrei solo lasciar andare le umiliazioni da parte della mia maestra. Poi in seconda media c’era un nuovo ragazzo che mi prendeva il diario e lo lanciava ad un altro mio compagno. Se lo passavano e, ogni volta che gli tornava indietro, lui se lo strusciava sul sedere come fosse carta igienica. La presi sul ridere, fintanto che il mio bullo non me lo sbatté forte sulla testa. Più volte, ogni qualvolta che glielo passavano, al punto che, piangendo, andai a cercare la prof. Gli raccontai tutto e, da un lato, quello che aveva cominciato a lanciare il mio diario pianse e chiese scusa. Dall’altra parte ricordo che il mio bullo, colui che lo usò per colpirmi testa, non se ne pentì affatto. Non ricordo nessuna scusa da parte sua. Quell’anno cominciai con il disegno. Facevo schizzi e non ero bravissima, ma ogni volta che li mostravo il mio bullo se ne interessava e finiva sempre con il darmi qualche dritta. Così continuai, pensando semplicemente che se gli mostravo sempre qualcosa di nuovo, disegnato da me, forse mi avrebbe semplicemente lasciata in pace. Invece ricominciò a prendersi gioco di me. Ciò che fa male, che crea cicatrici, che lascia il segno, ti fa avere una visione del mondo che le persone che non hanno provato il bullismo sulla loro pelle non capiranno mai. Una visione più ampia perché, una volta che superi ciò, impari quello che tra le quattro mura di un posto chiamato “scuola” non ti insegnano: ti diranno solo di andare oltre, di vederla nel modo in cui la vedono coloro che semplicemente non lo provano, senza guardare in faccia i sentimenti né gli occhi che si spengono. Sono molti coloro che guardano la vita con i paraocchi e non ascoltano la voce di chi sta male. Io però sento di non voler essere ricordata da chi mi ha conosciuto e da chi ancora mi frequenta come una ragazza senza allegria, come una persona insensibile e cinica. È un mondo di pregiudizi. È l’era del menefreghismo. Il mondo è doloroso e non so neanche cosa significhi appieno la sofferenza. Ad oggi penso, però, che la risata sia la miglior cura contro chi ha sofferto il bullismo, come contro la depressione o semplicemente la tristezza. Questa non è una lotta che vivi da solo o da sola ma che vivono più persone, che accomuna la gente come noi.
Alla fine di tutto siam sotto la stessa esperienza, sotto lo stesso cielo, viviamo lo stesso dolore. Persone uniche, persone diverse, persone sensibili, pronte ad aiutare qualcuno che sta male. Io mi ritrovo in tutto ciò, perché non mi sono data per vinta: sono andata avanti con la testa alta, con pochi amici, forse poca gente che mi ha saputo tollerare, e ancor meno gente che mi capisce. È un mondo schifoso ma da un lato trovo che chiunque abbia modo di migliorare e ad oggi ho perdonato chi mi ha picchiata, chi guardava mentre mi menavano, chi mi ha visto esser derisa e chi si è preso gioco di me.
*Studentessa dell’istituto Secchi