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Il commento

Il coraggio di chi trasforma il dolore nella voce che non fa sentire soli gli altri

Alice Benatti
Il coraggio di chi trasforma il dolore nella voce che non fa sentire soli gli altri

In una società bulimica come la nostra, che divora e risputa le notizie nel tempo di un caffè, di bullismo si parla quasi sempre quando per bambini e adolescenti è già tardi: sono già stati aggrediti o, peggio ancora, si sono tolti la vita. Ma sono i sopravvissuti il vero esercito e di loro si parla pochissimo

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Reggio Emilia In quarta superiore non si è più bambine ma donne. Forse è per questo che Mirela, l’autrice della vignetta che affianca queste righe, nata ormai diversi anni fa e ridisegnata nei giorni scorsi per #Scuola2030, si è senta pronta adesso a condividere la sua storia. E dire alle altre vittime di bullismo «non siete sole, è successo anche a me». Ma soprattutto «credetemi che si può andare avanti, ripartire, perdonare». Lo ha fatto però senza nascondere la profonda sofferenza di quel periodo, che è durata anni. Mostrando una ferita che, forse, non si rimarginerà mai completamente. O almeno questa è la sua paura. In una società bulimica come la nostra, che divora e risputa le notizie nel tempo di un caffè, di bullismo si parla quasi sempre quando per bambini e adolescenti è già tardi: sono già stati aggrediti o, peggio ancora, si sono tolti la vita. Ma sono i sopravvissuti il vero esercito e di loro si parla pochissimo.

Mirela Dos Anjos, 18 anni, studentessa dell’istituto “Angelo Secchi” di Reggio Emilia, è una di loro. Per lei il dolore è iniziato a 6 anni con una bulla come maestra, che la umiliava davanti ai suoi compagni perché non capiva la matematica. Così cambia scuola ma nella nuova classe viene presa in giro e isolata.

«Mi lasciavano da parte» racconta. Alle medie, poi, un compagno la mette nel cestino. Un altro le sbatte il diario sulla testa con forza. A Mirela non è stata rubata la vita, certo, ma il peso della solitudine lo ha scoperto troppo presto. E ora, condividendo la sua storia, è gli altri che vuole fare sentire meno soli. Attraverso le parole ma anche con una vignetta che testimonia «l’essere succubi del bullismo e le conseguenze che ne seguono ovvero il chiudersi in sé stessi, rimaner alla mercé dello sguardo e delle risate degli altri». Ma oggi «sono riuscita a perdonare chi mi ha picchiata, chi guardava mentre mi menavano, chi mi ha visto esser derisa e chi si è preso gioco di me».

*Responsabile progetto Scuola2030