La Corte d’Assise sull’omicidio di Saman: “Il fratello è indagabile”
Inutilizzabili interrogatori e incidente probatorio. “Sapeva che volevano ucciderla e mostrà le chat”
Novellara C’erano elementi concreti per indagare il fratello di Saman, Alì Haider, già dal 21 maggio 2021 per concorso in omicidio. Un atto che sarebbe stato dovuto per tutelare lui e gli altri indagati.
Non solo. Quando l’allora sedicenne fu ascoltato dai carabinieri e dalla procura, doveva essere assistito da un legale perché era stato iscritto nel registrato degli indagati per il reato di violenza privata (all’epoca si riteneva che avesse contribuito a portare la sorella in Pakistan per costringerla a sposarsi con un cugino, mentre in realtà era stata uccisa il primo maggio).
Le conseguenze di queste considerazioni, messe nero su bianco dalla Corte d’Assise di Reggio Emilia, davanti alla quale è in corso dal 10 febbraio il processo per la morte della diciottenne – nel quale sono imputati il padre Shabbar Abbas, la mamma Nazia Shaheen (latitante), lo zio Danish Hasnain e i cugini Nomanulhaq Nomanulhaq e Ikram Ijaz – sono rilevanti e impattanti sul dibattimento.
Infatti, da esse deriva che i verbali raccolti il 13 e 15 maggio dai carabinieri e il 21 maggio dalla pm Laura Galli non sono utilizzabili. Inoltre, l’incidente probatorio avvenuto il 18 giugno, nel quale il minorenne ribadì le accuse agli imputati non è utilizzabile anch’esso: all’epoca l’accusa di violenza privata era stata archiviata tre giorni prima, tra l’altro in modo molto celere, ma in realtà sarebbe stato indagabile per concorso in omicidio.
La Corte d’Assise ha dunque accolto i rilievi critici mossi nell’udienza del 24 ottobre dagli avvocati difensori dello zio, Liborio Cataliotti, e dei cugini, Mariagrazia Petrelli e Luigi Scarcella.
Ieri c’era grande attesa in tribunale per la deposizione del fratello di Saman, il testimone oculare che ha incastrato lo zio e i cugini, ma la mattinata ha preso una piega differente quando la presidente Cristina Beretti ha letto un’ordinanza di nove pagine nella quale ha concluso che il giovane non dovrà essere sentito come un testimone, ma come persona potenzialmente indagabile.
A quel punto l’avvocata Valeria Miari ha chiesto tempo per poter spiegare al giovane i suoi diritti: potrebbe anche avvalersi della facoltà di non rispondere. Tra l’altro, non si può escludere che la procura dei minori ora possa indagarlo.
Tutte le dichiarazioni del diciottenne, che rappresentano una parte importante dell’impianto accusatorio, anche se di certo non l’unica, rischiano ora di scomparire dal processo se non saranno ribadite in aula. Comunque, il cambio di veste giuridica influisce anche sul peso da attribuire alla testimonianza.
Ieri la Corte ha premesso che le argomentazioni esposte non vanno considerate come valutazioni sulla responsabilità di Alì Haider, che prende parte al processo come vittima, cioè parte civile.
I giudici hanno però condiviso la posizione dei difensori degli imputati circa una serie di anomalie, tra l’altro non le prime di questo procedimento, dato che è emerso che anche un altro zio e un altro cugino avrebbero dovuto essere indagati.
Dato atto degli errori formali, cioè, aver ascoltato il minore senza difensore quando era indagato per violenza privata, la Corte ha poi spiegato nel dettaglio le ragioni per cui ritiene vi fossero elementi per approfondire la posizione del fratello anche alla luce dell’accusa più grave, quella del concorso nel delitto.
Partendo dal racconto di Alì, i giudici rilevano che è stato lo stesso ragazzo a riferire che, sebbene consapevole della premeditazione e programmazione dell’omicidio, la sera del 30 aprile mostrò le chat e i messaggi intercorsi tra Saman e il fidanzato Saqib, di cui i genitori non erano a conoscenza e che provocarono la lite che condusse all’uccisione della giovane. Eppure, sempre stando alle sue dichiarazioni, sapeva che la fossa era stata già scavata e che vi era stata una riunione per pianificare il delitto. Posto che anche una condotta silente è passibile di essere qualificata come concorso nel delitto, gli elementi sopra elencati avrebbero dovuto condurre gli inquirenti ad approfondire la sua posizione.
La notte del delitto, lo zio Danish avrebbe detto al nipote, che si trovava all’esterno della casa di via Cristoforo Colombo, di tornare dentro per non essere ripreso dalle telecamere, «con ciò confermando di essere stato edotto di quanto stava per accadere».
Sempre quella stessa notte, lo zio chiamò Alì intorno alle 22, due ore prima che la ragazza uscisse di casa e poi scomparisse nel nulla. Il primo maggio, a delitto avvenuto, una zia residente in Inghilterra chiamò il sedicenne per istruirlo su quello che doveva dire alla polizia. «Non può ritenersi priva di interesse investigativo la circostanza che la zia paterna, dopo aver tentato inutilmente di contattare Danish, scelga proprio il nipote più piccolo». Quando il 20 maggio il padre Shabbar, già scappato in Pakistan, rimproverò il figlio per aver parlato, lui replicò dicendo che ad aver rovinato tutto era stata proprio la zia, perché i suoi messaggi erano stati trovati nel suo telefonino.
In conclusione, va notato che con questa puntuale disamina la Corte ha forse voluto anche evitare possibili motivi di impugnazione della sentenza di primo grado.l
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