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Nella storia dell’arte

Quando la pazzia veniva letta nei tratti del volto umano

Harmanpreet Singh, Andrea Soncini, Valeria Veneri
Quando la pazzia veniva letta nei tratti del volto umano

Le arti figurative hanno rappresentato idee senza fondamento. Nel Novecento si arriva a considerare il folle come un malato. La pazzia nei secoli tra arte, scienza e letteratura vista dagli studenti del Russell all’interno del progetto #Fuoriclasse realizzato con la Gazzetta di Reggio

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Reggio Emilia Il lavoro che abbiamo svolto insieme è consistito nella ricerca e nello studiodell’evoluzione del concetto di “follia” nelle arti figurative nel corso della storia, e per farlo ci siamo prefissati degli estremi cronologici: l’Età classica e il Novecento.

L’antichità

Partendo dall’epoca greco-romana, siamo rimasti alquanto colpiti da come queste culture considerassero il “folle”, ancora molto lontani dalla visione psicopatologica della follia. Il folle infatti era considerato colui che, posseduto da un’ineffabile estasi per la divinità, praticava gesti sfrenati fino all’esaurimento, spesso compulsivi. Questa ebbrezza inevitabilmente sfociava in danze incontrollate, sacrifici animali e violente aggressioni. L’esempio più significativo che possiamo presentare è quello delle sacerdotesse devote a Bacco, dio dell’ebbrezza, le Baccanti, delle quali abbiamo analizzato vari dipinti e sculture anonime (nell’antichità non c’era l’abitudine di firmare le proprie opere). Per noi è stato sorprendente che la follia fosse considerata dal mondo antico come prodotto di uno stato mentale temporaneo, quindi perfettamente naturale e giustificabile.

Il Rinascimento

Nel corso del Rinascimento, sviluppando le teorie fisionomiche medievali, si giunge alla conclusione che la follia trapeli anche dalle caratteristiche facciali e corporee di una persona. Viso scarno, occhiaie, sguardi ed espressioni cupe e insolite, movimenti della testa repentini: sono tutti segnali certi del delirio interiore.

Il pittore Girolamo Francesco Maria Mazzola detto Parmigianino (1503-1540) nel suo celebre “Autoritratto con berretto rosso” ci comunica il suo travaglio interiore attraverso l’espressione desolata del viso e la folta barba incolta. Questa concezione della pazzia ci è sembrata del tutto assurda, poiché si basa su deduzioni infondate attraverso osservazioni frettolose e superficiali: l’aspetto esteriore non è un fattore sufficiente per giudicare l’animo umano.

Lungo tre secoli

Le tappe successive del nostro percorso sono state il Cinquecento, il Settecento e l’Ottocento. Ci è sembrato di vedere finalmente una luce di verità nell’abisso dell’ignoranza, poiché abbiamo cominciato a notare uno studio sempre più approfondito del comportamento naturale dell’alienato. Il folle non è un ebbro e nemmeno un disagiato, ma un uomo che compie consapevolmente atti immorali, eticamente e religiosamente, che siano vizi o crimini. Il pittore Francisco Goya (1746-1828) rappresenta nei suoi “I Capricci “e “I Disastri della guerra” le bassezze, le aberrazioni e le crudeltà ad opera dell’uomo. Notiamo con piacere che la guerra comincia a ricevere il giusto biasimo anche nell’arte, che a nostro parere è lo strumento con l’impatto visivo più grande di tutti, capace di risvegliare la coscienza dell’uomo. Hieronymus Bosch (1453-1516) già aveva proposto nella sua “L'Estrazione della pietra della follia”, noto anche come “Cura della follia”, una possibile cura alla malattia, estraendo dal cervello una pietra immaginaria responsabile della pazzia. Seppur assurda come cura, ci è sembrato un primo passo importante dell’uomo verso la visione clinica della malattia.

Il Novecento

Abbiamo concluso la nostra ricerca al Novecento con grande piacere di vedere l’arte dal punto di vista degli alienati stessi, la cosiddetta “Art brut”. Jean Dubuffet (1901-1985), ispirato dall’opera di Hans Prinzhorn (1886-1933), fu l’artista che si occupò negli anni ’40 di raccogliere in una grande collezione privata (La Collection de l’Art Brut Lausanne), le opere realizzate dagli schizofrenici dei manicomi d’Europa. Vedendo i soggetti dipinti da questi “prigionieri” con il loro stile libero ci ha affascinati, e con questa nota dolce finale abbiamo concluso il nostro lavoro.

Harmanpreet Singh

Andrea Soncini

Valeria Veneri

Classe 4A

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