Non erano luoghi di cura ma luoghi di “scomparsa”: i manicomi nati come strumenti di segregazione
La pazzia nei secoli tra arte, scienza e letteratura vista dagli studenti del Russell all’interno del progetto #Fuoriclasse realizzato con la Gazzetta di Reggio
Tutto è cominciato da una partita di “sasso, carta e forbici”, un gioco con il quale il vincitore si sarebbe aggiudicato una ricerca sulla storia e le caratteristiche dei manicomi. La fortuna era stata dalla nostra parte e vittoriosi ci siamo messi all’opera per scoprire più informazioni possibili sull’argomento.
Siamo partiti dall’etimologia del termine “manicomio”, scoprendo che il termine deriva direttamente da “pazzia” e “ospedale”, eppure inizialmente questo non voleva essere un luogo di cura ma di internamento, che permettesse di allontanare i matti dai centri abitati.
Ecco rivelata la vera natura dei primi manicomi: luoghi di segregazione dove i malati venivano isolati e trattati come oggetti, con i quali sperimentare strane cure/torture come la lobotomia, ovvero l’interruzione di fibre nervose, scariche elettriche o più semplicemente docce freddissime e infine le immobilizzazioni.
Il tutto in Italia è stato accentuato nel 1904 dalla Legge Giolitti, che autorizzò la reclusione negli ospedali psichiatrici di qualunque malato di mente fosse ritenuto un pericolo per sé o per gli altri (ma chi decideva aveva il potere di cambiare per sempre la tua vita).
Nel frattempo nei più importanti manicomi italiani cominciava a diffondersi aria di cambiamento.
Molti psicologi e medici si ribellarono ai brutali sistemi di contenimento dei folli, promuovendo attività a diretto contatto con la società.
Una delle personalità più importanti in questo ambito fu Franco Basaglia, psichiatra e neurologo, fautore della legge risalente al 1978 che prese il suo nome, con la quale si imponeva la chiusura di tutti i manicomi della penisola.
Questa fu una riforma estremamente innovativa che fece ottenere all’Italia il titolo di primo Paese ad aver abolito gli ospedali psichiatrici.
Il rapporto tra follia e comunità tornava ad essere più solidale: ora sarebbe stato compito di tutti occuparsi delle persone in difficoltà, senza la possibilità di “carcerarle”.
La legge Basaglia, conosciuta come la 180, ha segnato un’inevitabile rottura tra passato e presente; dopo la sua entrata in vigore si dovette attendere altri 30 anni per vedere risultati concreti, quando nel 2008 gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) divennero responsabilità del Servizio Sanitario Nazionale e quando anch’essi furono chiusi nel 2014.
Al loro posto cominciarono a diffondersi case famiglia e luoghi di accoglienza.
Ad oggi dobbiamo essere orgogliosi dei progressi fatti dallo stato italiano in merito alla questione, il nostro compito è di mantenere vivo il ricordo di quello che è stato il manicomio per non ripetere gli errori del passato, non abbandonare le famiglie dei malati e garantire inclusione sociale perché il vero “folle” è chi spera nel cambiamento senza fare nulla per cambiare.l
Annachiara Brighenti
Francesca Lasagni
Simone Scappi
Classe 4C
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