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L'impresa

In moto da Reggio Emilia alla Mongolia

Serena Arbizzi
In moto da Reggio Emilia alla Mongolia

Federico Marretta percorre 26mila chilometri in tre mesi: «Ho scoperto un mondo diverso. E una videochiamata mi ha salvato il viaggio...»

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Reggio Emilia «Quando torni da un viaggio di 26.000 chilometri fino in Mongolia, ai confini del mondo, capisci che hai più domande che risposte. Tu sei da solo e ti devi fidare degli altri: capisci, quindi, che c’è ancora tanta gente buona».

Con la sua ondata travolgente di carica e simpatia, Federico Marretta, 32 anni, ha portato la pallavolo reggiana sul tetto del campionato. Messi da parte pallone e allenamenti per tre mesi, lo schiacciatore è salito in sella alla moto e ha premuto sull’acceleratore fino a Ulan Bator. In mezzo: Grecia, Turchia, Iran, Georgia, Russia, Kirghizistan... e tanto altro.

Com’è nata l’idea di questo viaggio?

«È nata nel nome della libertà e della voglia di conoscere, di togliere i preconcetti sul fatto che tutto ciò che appartiene a un certo mondo dell’est sia pericoloso. Così, invece di scegliere un viaggio pettinato, mi sono addentrato in culture diverse. Tre anni fa stavo già programmando il viaggio verso la Mongolia. Poi è scoppiata la pandemia. Dal punto di vista motociclistico sono diventato un pelino più bravo e mi sono convinto ancora di più di voler fare questo viaggio».

Come ha scelto la meta?

«Di solito, dai Paesi in cui sono stato arrivano soltanto brutte notizie di conflitti. Un contrasto con l’accoglienza grandissima delle persone. Sapevo bene o male gli Stati che volevo attraversare poi, però, mi sono affidato all’improvvisazione. Sono partito due giorni dopo la vittoria del campionato. Inizialmente, ci siamo incontrati nel negozio specializzato Uptrail store di Modena, riferimento per molti appassionati, che mi ha supportato in modo efficientissimo. Sono partito con tre amici con i quali ho viaggiato fino in Turchia. Poi loro hanno dovuto rientrare per motivi di lavoro e altro, mentre i o ho proseguito».

Come ha deciso e vissuto le tappe durante il viaggio?

«Ho trascorso pochissime notti in hotel. Per quasi tutti i tre mesi del viaggio, durato buona parte dell’estate per finire in autunno, sono stato ospitato dalla gente che mi ha trattato come un figlio».

C’è mai stato un momento in cui ha pensato: “Il viaggio è finito, torno a casa”?

«In Iran ho avuto problemi burocratici. Ho incontrato persone che si erano inventate il mestiere di ufficiali: dovevano rilasciarmi i documenti per entrare. Inizialmente, non avevano detto che volevano essere pagati e io non volevo dare loro dei soldi, così se ne sono andati e io sono rimasto senza documenti. Poi ci siamo accordati e sono ritornati. Del resto, anche nella vecchia Persia, quando dicevo che sono italiano e pallavolista che ha giocato con gli iraniani, mi si spalancavano le porte. Mi chiedevano di Albano e Romina e delle canzoni italiane. Tutti volevano tornare in Italia con me. Un momento difficile e di solitudine sempre in Iran è stato quando si è bruciato lo statore della mia Ktm 1290. Grazie al concessionario Cocconcelli Moto di Quattro Castella ho risolto il problema: ci siamo collegati in videochiamata dall’Iran e mi hanno guidato nel risolvere il guasto».

Ogni giorno sarà stato ricco di aneddoti...

«A fiumi. Come quando in Kirghizistan dovevo raggiungere la capitale, alla vigilia del mio compleanno. Mi sono impantanato con la moto tra le tende di nomadi. Ho trascorso la mezzanotte con una famiglia che mi ha preparato da mangiare. In cambio ho donato loro la mia biancheria. Arrivato a Persepoli, mi sono fermato a mangiare un panino e ho incontrato una signora che mi ha portato a casa sua. Ho dormito per terra e al mattino sono dovuto fuggire in fretta: un uomo europeo non può stare nella stessa casa con quattro donne».

E la guerra in Ucraina: avete corso rischi?

«La parte di Russia da cui sono entrato era un mondo parallelo: da una parte le notizie terribili della guerra, dall’altra, in quella zona, era come se non fosse arrivata».

Ha già un’altra meta?

«Sì, oltreoceano: 20.000 chilometri tra Canada e Argentina. Passaporto permettendo: ho il timbro iraniano e potrebbero fare storie...».

E la pallavolo?

«La pallavolo è stata la mia vita da quando avevo 11 anni e mi sarebbe piaciuto non smettere mai. Non mi sono mai rapportato con la “normalità” del lavoro e della vita. Fama, donne, soldi, privilegi. Sono solo alcuni dei bonus che lo sport ti può dare, ma se lo vedi da dentro, c’è dell’altro: sacrifici, rinunce, mancanze. Sarebbe stato più facile smettere dopo un anno disastroso, dove appendere le scarpe al chiodo sarebbe stato come una liberazione, ma dopo la vittoria di un campionato diventa davvero difficile. Perché ti rendi conto di quanto sia bello vincere, vedere tutti i sacrifici fatti portare a un risultato. Poi ripensi a infortuni, operazioni, controlli e pensi: “Ho davvero la forza di volontà per continuare?”. Durante il viaggio ho avuto tanto tempo per pensarci. Credo di aver dato tutto quello che avevo a questo sport, ma sono sicuro che questo “lui” mi avrebbe dato ancora tanto. Perché fino all’ultimo l’ho considerato il gioco più serio che potessi fare, divertendomi. Ogni volta che vedo una palla in aria mi viene da prendere la rincorsa e saltare più alto che posso per schiacciare con tutta la forza che ho. Posso però provare a fare ciò di cui ho realmente bisogno. Stare bene con me stesso. Come? Lo sto scoprendo...».