«Va bene, Loris Malaguzzi è stato bravo ma qui gli asili li hanno fatti le donne»
Loretta Giaroni, coordinatrice provinciale dell’Udi dal 1957 al ’67 e assessore alla scuola dal ’65 al ’75, vuole fare chiarezza «Hanno costruito un culto su di lui, un’ideologia, ma la storia è un’altra cosa e a Reggio proprio non la vogliono ricordare»
REGGIO EMILIA. «Ha visto il programma per i cento anni dalla nascita di Malaguzzi? È lungo dodici pagine. Va bene, non dico niente, non voglio certo rovinargli la festa, ma quella con cui stiamo bombardando il mondo è una favola inventata dalle pedagogiste. La storia è un’altra cosa, e a Reggio non la vogliono ricordare».
Non ama i giri di parole, Loretta Giaroni. «Alla mia età dovrei riposarmi, ho 91 anni suonati... ma non ci riesco, non ci riesco proprio». Simbolo delle lotte per i diritti delle donne, in prima linea come coordinatrice provinciale dell’Unione donne d’Italia (Udi) dal 1957 al 1967, è stata assessore alle Scuole e ai Servizi sociali dal 1965 al 1975. «Per questo posso raccontare, e voglio raccontare, come sono andate veramente le cose. Devo farlo per chi c’era e non c’è più, ma anche per i giovani che non conoscono la storia».
Allora, come sono andate le cose?
«Sono andate che Loris Malaguzzi, che è stato un bravo pedagogista, niente da dire, a Reggio non ha inventato niente. A Reggio Emilia i diritti dei bambini sono stati generati dai diritti delle donne».
In che senso?
«Sono state le donne dell’Udi a volere gli asili. Dopo la Liberazione le donne volevano lavorare, ma per farlo avevano bisogno di un posto dove lasciare i bambini. C’erano le scuole parrocchiali, ma non c’era personale qualificato. Noi volevamo una maestra diplomata, così abbiamo costruito una scuola “nuova e diversa”, la chiamavamo così».
Quante ne avete aperte?
«Otto a Reggio e una ventina in provincia. La prima è stata quella di Cella, l’Asilo del popolo. Era il 1945, la guerra era appena finita. Le donne dell’Udi sono andate dal Comitato di Liberazione Nazionale e hanno chiesto di vendere il carro armato, i cavalli, i camion e il resto del bottino di guerra dei partigiani per fare una scuola. Gli uomini volevano un teatro, ma le donne hanno chiesto l’asilo. L’hanno costruito andando a prendere la ghiaia nell’Enza, ci hanno messo due anni. Poi l’hanno autofinanziato, come tutte le altre scuole aperte dalle donne. Si raccoglieva il grano per pagare la maestra, e al lunedì i contadini portavano le uova per sfamare i bambini. Bene, sa cos’ha detto Loris Malaguzzi in un momento di grande sincerità, riferendosi all’asilo di Cella?».
Cosa?
«Ha detto: “Ho ricevuto una lezione da uomini e donne dagli ideali intatti, che prima di me avevano capito che la storia poteva essere cambiata appropriandosene (cioè facendo le risorse), cominciando dal destino dei bambini”. Sa che anno era quando lo ha detto? Il 1985. Un po’ tardino, no?».
Chiariamo però che il suo non è un attacco a Malaguzzi.
«Ma no, io mi arrabbio a vedere il culto che ci hanno costruito sopra a Reggio. E quel mausoleo... (il Centro internazionale Reggio Children, ndr). Le pedagogiste hanno creato un’ideologia cambiando la storia. Questo benedetto sistema 0-6 anni con cui torturiamo il mondo è nato a Reggio in un contesto preciso, che non va dimenticato. Se non ci fossero state le donne dell’Udi non avremmo avuto gli asili. Perché oltre ad averli voluti, costruiti e autogestiti dopo la Liberazione, sono state sempre loro, negli anni Sessanta, a spingere perché il Comune li prendesse trasformandoli in pubblici».
E lei, in questo, ha avuto un ruolo fondamentale.
«Fondamentale non lo so, ma sicuramente sono stata coraggiosa. Nel 1959 durante la Conferenza regionale del Pci, c’erano Campioli, Togliatti, Nilde Iotti, mi sono alzata in piedi e ho detto: “Perché a Reggio Emilia, che ha 160mila abitanti, non c’è ancora una scuola comunale?”. Da lì qualche sindaco più aperto di mente, tra cui il nostro Renzo Bonazzi, ha capito che si poteva anche chiudere il bilancio in rosso per fare qualcosa di necessario, come la riforma educativa. È stato Bonazzi, dal 1963 al ’75, ad aprire tutte e venti le scuole dell’infanzia comunali, quattro su progetto e sedici in locali adattati, e gli otto nidi comunali. Eppure nessuno se lo ricorda».
Malaguzzi però con lei e con Bonazzi ha lavorato parecchio.
«Sì, ma se ha lavorato a Reggio è perché qui gli abbiamo dato i soldi di cui aveva bisogno. Prima era a Modena, che era partita molto prima di noi e aveva già molte più scuole comunali, lui voleva la cucina interna ma loro non gli hanno dato i soldi per farla, così è venuto qui».
La storia per cui si sta battendo è raccontata nel volume “Una storia presente”, scritto dagli storici Antonio Canovi ed Ettore Borghi per Istoreco. Il libro, pubblicato nel 2001, non è mai stato ristampato né tradotto, ed è quasi introvabile.
«Purtroppo è così. Purtroppo perché la sua conoscenza permetterebbe di rimettere ordine nella memoria di quegli anni a beneficio della verità storica e delle generazioni passate, presenti e soprattutto future. C’era stata una richiesta per la ristampa, ma si è risolta in un nulla di fatto. Ora c’è un rinnovato impegno verbale per la ristampa del libro entro la fine di febbraio, staremo a vedere».
Perché è così importante?
«Perché lì c’è la storia vera, non quella rielaborata ideologicamente. E la storia è fondamentale, è un impegno per non perdere le nostre radici. Le sembra possibile che meno della metà delle scuole dell’infanzia e dei nidi abbia una “carta d’identità”? E che le persone non sappiano come sono nate queste scuole e a chi sono dedicate? Ma abbiamo fatto anche di peggio: abbiamo ribattezzato la scuola “Ada Gobetti”, che era una partigiana che ha combattuto insieme a suo figlio 17enne, “Balducci”... Ma io dico, date alle scuole i nomi delle donne no? Delle prime maestre, ad esempio. O del sindaco Bonazzi. Pensi che in un’intervista disse: “Quando morirò spero mi dedichino una scuola”. Gninto, an’gl’om mia cavèda». —