Gazzetta di Reggio

Reggio

«In rapporti con Unieco e Coopsette» 

di Tiziano Soresina
«In rapporti con Unieco e Coopsette» 

Il pentito Oliverio parla degli affari con le due coop. Poi la rivelazione-shock: «Seppellivamo, in buche, rifiuti pericolosi»

17 marzo 2017
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REGGIO EMILIA. Due cooperative rosse reggiane – Unieco e Coopsette – vengono nuovamente citate durante una testimonianza del maxi processo Aemilia.
I due ormai ex colossi cooperativi – da tempo travolti dalla crisi – non hanno imputazioni nel procedimento, comunque di loro si è parlato di recente una prima volta relativamente ad altrettanti appalti legati alla ricostruzione post-terremoto che le coop girarono (a Reggiolo e a San Felice) in subappalto alla ditta Bianchini. Mentre ieri sul discorso ci va di sua iniziativa il pentito 46enne Francesco Oliverio, mentre racconta dei suoi trascorsi a Rho (nel Milanese, dove aveva impiantato un “distaccamento” del suo clan originario in Calabria) e dei legami con la ’ndrangheta emiliana. «A quel tempo i miei affari erano nel movimento-terra e nei lavori stradali – rimarca il collaboratore di giustizia “protetto” da un paravento – e avevamo già dagli anni Novanta collegamenti con le cooperative emiliane: Unieco, Coopsette e via dicendo». Di più non dice su questi rapporti con le coop rosse. Il pentito, su precisa domanda della Corte, spiega invece il perché, secondo lui, le imprese sane al Nord si rivolgevano a ditte ndranghestiste. Indica tre motivazioni, senza specificare dove, al di là di Rho e dintorni, queste cose avvenivano: «Se le aziende sane erano in difficoltà – illustra deciso – venivano fornite fideiussioni bancarie tramite società all’estero, in secondo luogo veniva fatto in modo che pagassero meno Iva e meno tasse». Vantaggi economici, ma anche un terzo motivo da brividi: «Si facevano pure sparire i rifiuti pericolosi, con l’escavatore si scavava una buca e li sotterravamo. Ricordo in un lavoro stradale una buca di 5 metri...».
Una testimonianza a 360 gradi quella del pentito Oliverio – sulla scia delle domande a raffica dei pm antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi – che non nasconde di essere stato l’esecutore o il mandante di omicidi, di essere entrato ben presto nel sanguinario ambiente ndranghetista quando negli anni Ottanta – giovanissimo – gli uccisero il padre che era a capo di una “locale” a Belvedere Spinello (nel Crotonese, non lontano da Cutro): «Credevo nei valori della ’ndrangheta perché ci sono nato e cresciuto, avevo il grado di “trequartino”, ma quando ho visto che si sparava anche su donne e bambini sono cambiato ed oggi non mi riconosco più nella persona che ero». Specifica che la sua cosca era alleata dei Dragone (a Cutro) e degli Arena (a Isola Capo Rizzuto) e che, quindi, aveva vissuto la “guerra” contro i Grande Aracri e i Nicoscia dei primi anni Duemila sino alla “pace”. Ma parla anche della massoneria («Gli ndranghetisti cercano di affiliarsi per entrare in contatto con personaggi istituzionali, magistrati, avvocati, imprenditori e forze dell’ordine») e di come, amaramente, “girino” le cose mafiose: «Il fine della ’ndrangheta sono solo i soldi, parlano di onore, ma se c’è un ammanco anche di 20 euro sono capaci di ucciderti!».
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