Gazzetta di Reggio

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Riccardo Bertani, il glottologo contadino che legge e traduce 100 lingue

di Ambra Prati
Riccardo Bertani, il glottologo contadino che legge e traduce 100 lingue

Campegine: da autodidatta, in settant’anni l'86enne di Caprara ha studiato e tradotto 100 lingue scrivendo 600 testi. I suoi sostenitori pronti a una raccolta firme per fargli concedere una laurea onoraria

15 marzo 2017
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CAMPEGINE. «Siamo pronti a mobilitarci con una petizione, se la laurea honoris causa a Riccardo Bertani non arriverà in tempi brevi». L’annuncio è di Stefano Dallari, patron della Casa del Tibet, ultimo di un lungo elenco di estimatori del “contadino glottologo” di Caprara, che da parte sua si schermisce. «A me non interessa, non voglio fare il fenomeno da baraccone: mi importa solo che rimanga il mio lavoro», afferma l’interessato.
Di fatto, quel riconoscimento più volte invocato contribuirebbe a far diventare oggetto di studio accademico – quell’accademia che lo ha sempre snobbato – gli oltre 600 testi pubblicati in settant’anni di studio da Riccardo Bertani, 86 anni. Provato dall’età ma sempre lucido.

Bertani è un ossimoro vivente: arrivato a fatica alla licenza elementare («scappavo da scuola»), da autodidatta apprende oltre un centinaio di lingue, «quando non so nemmeno l’italiano», dice. Contadino classe 1930, ha sempre passato le notti sui libri per lavorare di giorno («ancora oggi mi sveglio alle 3, è l’abitudine»), ma si è sempre considerato «un contadino sbagliato».

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Conosce tutti, ma conduce una vita solitaria nell’abitazione familiare di via Rimondella 1 a Caprara («mi consideravano una persona strana e avevano ragione»). Si è occupato dei popoli più sperduti del pianeta, ma non ha mai messo piede fuori dall’Italia («viaggio con la fantasia, recarmi nei luoghi fisici mi deluderebbe»). Nato e cresciuto nella patria dei fratelli Cervi, che erano amici di famiglia, non ha avuto tessere («avevo la nomea di anarchico, ero e sono un tolstojano»).

Eppure, al di là del folklore, Bertani è uno maggiori conoscitori di lingue e idiomi perduti. Perfino l’etichetta di poliglotta gli va stretta: non solo perché le sue conoscenza linguistiche attengono esclusivamente alla parola scritta, ma soprattutto perché il suo interesse non è mai disgiunto da ricerche etno-antropologiche e sociologiche, in primis le migrazioni.

«Per imparare una lingua bisogna prima conoscere il popolo».

Iniziò dai pochi libri e riviste straniere a portata di mano a Caprara nel dopoguerra (il padre Albino fu il primo sindaco del Comune di Campegine), cioè il russo – “Russia primo amore” è il titolo di un testo autobiografico, in cui ricorda le prime traduzioni dal poeta ucraino Sevcenko –, la curiosità onnivora e capricciosa hanno ben presto portato Bertani a compiere incursioni nelle terre vergini del siberiano, il mongolo, il finnico, l’orocia, l’aino, il burjato, il basco, gli indiani d’America, il rutulo (parlato oggi da una piccola comunità del Daghestan) e certe ceppi della Terra del fuoco in Argentina.

Idiomi che Bertani ha ricostruito lemma per lemma, in ordinati quaderni dalla perfetta calligrafia d’antan, redigendo dizionari, inanellando fiabe e poemi orali, occupandosi di medicina “alternativa” ma anche di civiltà contadina reggiana (sua è la storia della vacca rossa) e diventando prezioso consulente per studiosi di antropologia.

Ora sta redigendo una raccolta di favole sugli animali. «La lingua più difficile? Quella che ancora non conosco».
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