«Così Antonio Gualtieri rese la mia vita un inferno»
Ieri al maxi processo il racconto di un imprenditore 53enne (la sua società fallì nel 2014) «Mise la sua carta d’identità sul tavolo: paga o ti vendo ad altri colleghi meno comprensivi»
REGGIO EMILIA. «Ero disperato, non avevo più nemmeno gli spiccioli da dare a mia figlia per comprare la merenda a scuola». La storia personale di un imprenditore vittima di ’ndrangheta, che ieri ha tenuto banco nell’udienza del maxiprocesso Aemilia, è paradigmatica di quello che accadeva a persone perbene che, per loro sfortuna, incappavano nel sodalizio criminale reggiano.
IL PROLOGO. Il 53enne padroncino bergamasco conduce una vita normale tutta famiglia e azienda di vendita all’ingrosso di elettronica, finché un giorno - siamo nel 2011 - viene chiamato ad una riunione a Bergamo da un altro piccolo imprenditore, con il quale faceva affari da anni senza screzi. «E’ presente Antonio Gualtieri, accompagnato da un altro signore (un albanese già condannato in abbreviato, ndr), più M., il mio conoscente, che illustra una collaborazione societaria per far entrare nuovi capitali, ma in modo non ben definito».
Un incontro interlocutorio, quasi distratto: è la prima volta che il 53enne vide Gualtieri, ma l’impressione di puzza di bruciato è immediata. «Per esperienza professionale sono abituato a valutare le persone: e con quel Gualtieri di certo non avrei voluto lavorare». Una sensazione negativa che è solo un prodromo di quello che attende il malcapitato. Due giorni dopo, infatti, Gualtieri conincia a telefonare nell’azienda del 53enne; una escalation persecutoria, fino all’ordine di quello che per gli inquirenti è il braccio destro di Nicolino Grande Aracri: «Ho bisogno di vederla, a Reggio, negli uffici della Ediltetti». Nel secondo incontro, Gualtieri scopre le carte: annuncia al 53enne che lui risulta avere un debito di oltre un milione di euro con la società bergamasca di M. e che quel debito lo deve saldare. «Faccio presente che in alcune attività siamo loro fornitori, in altre loro clienti; e che la società di M. con me ha un debito più o meno delle stesse proporzioni». Gualtieri replica «”Non me ne frega niente di quanto ti deve M.”. Capisco che Gualtieri ha il controllo finanziario della società di M. e, anche in seguito parlando con quest’ultimo, realizzo che il mio ex partner è succube: io e lui siamo sulla stessa barca». In quell’incontro Gualtieri intima al 53enne di pagare. «Mi dice: “So che non hai un milione di euro, ti spiego come devi fare. Una prima somma consistente, per dimostrare le tue buone intenzioni, poi un piano di rientro a rate, ciascuna di almeno 20mila euro”. Per la prima rata mi da istruzioni precise: da consegnare non più tardi di martedì, perché giovedì lui sarebbe andato in Calabria a incontrare il capo».
RESISTENZA. In questa prima fase, il 53enne oppone una certa resistenza: ma qualsiasi tentativo della vittima di svincolarsi viene travolto dal metodo intimidatorio e di accerchiamento, rodatissimo, dell’organizzazione. «Gualtieri più volte mi chiama all’improvviso dicendo di andare a Reggio e, se non lo faccio, dopo tre ore me lo trovo sotto casa. Ogni volta che esco dal portone, ho la netta sensazione di essere seguito. Un giorno, mio figlio torna raccontando che strani figuri lo hanno fermato per strada facendogli domande sul papà». Nessuna minaccia esplicita («non mi hanno mai detto: ti ammazziamo»), ma abbastanza per creare un clima di puro terrore («ero diventato paranoico»). In una delle numerose convocazioni d’imperio negli uffici reggiani, Gualtieri usa il bastone e la carota: «Mette la carta d’identità sul tavolo, “io eseguo soltanto ordini e devo portare a casa il risultato (cioè i pagamenti), perché ogni settimana devo relazionare in Calabria, al capo della famiglia ’ndranghetista, sulla tua e su altre vicende”. Mi consiglia di ascoltarlo, perché altrimenti avrebbero venduto il mio debito e sarebbero subentrati dei suoi “colleghi” bergamaschi senza dubbio meno comprensivi».
LA RESA. Un quadro chiaro, che induce il povero imprenditore a chiedere un prestito in banca per la prima tranche: «Mi hanno chiesto 40mila euro, ne ho pagati 88mila. Quel prestito bancario, dal quale non riuscii a rientrare, fu l’inizio della fine, perché i tredici istituti che collaboravano con la mia azienda cominciarono a chiudere i rubinetti».
L’EPISODIO. Non che non ci provi, il 53enne, a saltarci fuori in ogni modo possibile: anche chiedendo aiuto a Roberta Tattini, la commercialista bolognese consulente del boss Nicolino (condannata in abbreviato a 8 anni e 8 mesi), che nell’indagine ha tirato in ballo gli Iaquinta. «Mi fu presentata dal mio commercialista – ha dichiarato l'imprenditore – a un certo punto le chiesi se poteva intercedere per me, lei rispose che ci avrebbe provato ma non prometteva niente». Difatti la presunta buona parola non sortisce risultati.
E il peggio è che il 53enne rischia di trascinare nel gorgo infernale altri piccoli impresari come lui: «Su richiesta, faccio il nome di questa e quest’altra società che mi dovevano dei soldi; Gualtieri dice che avrebbe fatto qualche telefonata per aiutarmi. Ma non ho saputo più nulla».
L’EPILOGO. L’imprenditore bergamasco continua a versare 4-5 rate minori, «per un totale di 140mila euro», che insieme ad altre difficoltà affossano definitivamente la sua azienda, dichiarata fallita nel 2014. L’incubo diventa un tunnel sempre più stretto, i risparmi finiscono, tanto che, a maggio 2012, il 53enne smette di versare. Cosa accade? Nulla, perché i carabinieri, che nel frattempo intercettavano i suoi aguzzini, lo contattano. Il pm Mescolini chiede alla vittima perché non denunciò. «Ho capito subito che uno come Gualtieri non si incontra tutti i giorni per strada. Avevo paura: solo quando si sono presentati i carabinieri ho raccontato tutto». Come ne “L'Angelo Sterminatore” di Bunuel, la gabbia si apre all’improvviso.